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Fermo davanti allo specchio di ingresso, Tiziano Rovelli rifletté sul fatto che finora non aveva mai preso in mano quella pistola con l’intenzione di verificarne il suo potenziale violento. Fine luglio, serata calda.
Mentre la caricava lanciò uno sguardo al grande e barocco salone alla sua destra, zeppo di rari, a volte bizzarri, oggetti da collezione: per un attimo gli sembrò il caotico negozio dove aveva acquistato la calibro 9 per investimento, mica per usarla.
Gli oggetti in mostra in quel salone, oltre alla sua bulimia di bello, di ricco, di prestigio, lasciavano trapelare ingordigia e assenza di senso della misura; tuttavia l’insieme, il contesto, forse l’aria che si respirava dentro quel mausoleo all’ostentazione, rimandava ad un incerto senso di eleganza: i mobili, le tele, pure la pistola, erano stati il suo modo di reinvestire i guadagni della sua posizione di affermato manager da più di vent’anni prestato al sistema bancario.
Tra quelle pareti, un paio di stranezze: la prima era un vecchio poster dove, appena sopra una grande scritta “Easy rider”, due giovani uomini guidavano appariscenti motociclette i cui comandi erano posti in posizioni assai poco consone e meno che mai confortevoli; la seconda era uno sbuffo di vapore, leggero e imprevedibile, forse prodotto dalla jacuzzi.
Tiziano, forse per noia, forse per pura intuizione o per moda, era poi passato dagli oggetti senza vita alle moto d’epoca, e ne aveva acquistata una proprio tre giorni prima con l’iniziale intento di possederla e basta, mica per andarci in giro. L’aveva trovata per caso, messa in vendita su Moto.it da un collezionista milanese che asseriva di volersi disfare di alcuni pezzi, i meno pregiati, per raggiunti limiti di età e scarsissima propensione della prole ad appassionarsi a mezzi tanto affascinanti quanto incomprensibili. La moto era immacolata, cromature perfette, velluto metallico lucente, certamente era stata ritoccata per renderla come appena uscita dal concessionario Honda “Faktor Moto” stampato sul portatarga: concessionario del quale si erano perse le tracce, travolto dalla bufera della metà degli anni ’90. Tiziano in due giorni aveva concluso l’affare, andando personalmente a prendersela con un furgone, da solo e senza far sapere nulla a nessun altro. Del resto, non aveva figli, né moglie. Molte amiche, questo sì.
Il vapore si nascose nella parte buia della stanza, rimanendo per un po' a galleggiare nell’aria calda.
Per il Dottor Rovelli quella Honda CB 550 Four del ’75 era una vecchia conoscenza. Fermo davanti allo specchio, sempre con l’arma in pugno, sorrideva compiaciuto ringraziando la stupidità e la superstizione per il ridicolo prezzo al quale era riuscita ad acquistarla. La moto, infatti, non godeva di ottima fama e aveva una storia controversa. Il collezionista, inquadrando al volo il tipo, nel tentativo di solleticarne la vanità di possedere un oggetto unico e maledetto, aveva spiegato a Tiziano che il primo proprietario era stato un rampollo di una famiglia d’alto lignaggio della Toscana d’assalto, il quale aveva condotto una vita dissennata e senza controllo; poi, alla soglia dei trent’anni, trascinate le ingenti ricchezze familiari in una serie di spericolate operazioni finanziare fallimentari, si era dato al crimine di piccolo cabotaggio: rapine, furti, aggressioni a mano armata. Si diceva che le mettesse in atto utilizzando proprio quella moto, prendendo di mira direttori di banca, di fondi d’investimento, politici, burocrati: solo loro, con estrema precisione. Era diventato un chiodo fisso delle forze dell’ordine, che sapevano benissimo chi fosse ma che nulla potevano perché la famiglia di quel giovane era innervata nei gangli economici e politici dell’Italia degli anni ’70, e quando si è potenti si è spesso anche impuniti.
Quel giovane, sosteneva il collezionista, fece però un errore: un giorno rapinò la persona sbagliata. Non si sa bene chi fosse, ma quella sbagliata.
Dopo quell’ultima rapina, la moto fu ritrovata parcheggiata a lato della strada, ancora accesa. Del giovane criminale, nessuna traccia: due anni dopo ne fu dichiarata la morte presunta e i genitori, prima di trasferirsi in Costa Rica, vendettero la motocicletta ad un prezzo irrisorio per disfarsene prima possibile e lasciare che le cronache dimenticassero rapidamente quella storia.
«Guardi, ho dei ritagli di giornale… era il 1976», aggiunse il collezionista.
Sempre davanti allo specchio, con la pistola carica in pugno, Tiziano tornò al momento del giorno prima in cui aveva scaricato la moto nell’immenso garage della sua villa, accanto alle auto d’epoca. Era un piano terra fresco ed arieggiato dalle pareti bianche ed immacolate, dove era piacevole trascorrere il tempo; aveva indugiato a lungo intorno alla Honda: era ancor più bella di quanto ricordasse. Il serbatoio verde militare non mostrava un’ammaccatura né un graffio. Chinandosi ad osservare le cromature e il motore monoalbero, aveva ammirato come fossero, anche quelli, perfettamente lucidi. Rimase estasiato ad osservare i quattro scarichi e la loro classica forma a tromba strozzata, sulla quale passò fugace la mano. Come a concludere un esame, mise goffamente il piede sulla leva d’avviamento e spinse forte, non perdendo l’equilibrio per un soffio. Con un accenno di fiatone nonostante lo sforzo irrisorio, mise una mano sull’acceleratore e diede gas al motore, ascoltandone il suono. Accelerò di nuovo, facendo muovere lentamente la ruota motrice nel vuoto dell’aria e ritrovando la stessa grinta di trent’anni prima. Lasciò la moto al minimo, mentre il faro illuminava la parete bianca e spoglia del garage, come un grande occhio di bue in attesa del mattatore che calcasse il palco, il pubblico già in delirio.
Trattenendo la pancia prominente, Tiziano alzò la gamba scavalcando la sella e accovacciandovisi sopra, in posizione di guida, guardò i comandi e il contagiri come un astronauta guarda la terra dallo spazio e quindi, quasi fosse un gesto di quotidiana naturalità, ingranò la prima. Uscì dal garage con fare via via più deciso, lasciando spazio al silenzio e alle ombre che ripresero rapidi il loro posto. Passò del tempo, prima che il motore tornasse a far vibrare l’aria della rimessa. Quanto basta. Quando la ripose sul cavalletto, rimase a guardarla provando imbarazzo.
Il giorno dopo si svegliò tardi. Andò in ufficio inebetito e sovrappensiero, come se non fosse riuscito a svegliarsi del tutto. In mattinata era prevista una riunione per la ristrutturazione aziendale in corso, l’ennesima di quegli anni. Non la ascoltò nemmeno in parte, convinto che si concludesse come tutte le precedenti: licenziamenti per gli altri e bonus per loro, come naturale conseguenza dell’aumentata quotazione di borsa. Rimase così a guardare un punto lontano all’orizzonte, distratto. Al termine della riunione, saltò il pranzo e si chiuse in stanza, preda di una sorta di ronzio che le due pillole ingoiate a secco non riuscirono nemmeno a scalfire; sulla scrivania trovò da firmare il fine rapporto degli 834 dipendenti in esubero, quindi rimase al computer fino a tardi. Nella sua stanza c’era uno sbuffo di vapore, forse dalla macchina del caffè che dava di matto con il caldo.
Quando si alzò dalla scrivania era già buio, si avviò verso casa in auto e quando vi giunse gli sembrò di risentire il rombo della moto, come la sera precedente. Si guardò intorno, ma il luccichio della luce esterna sulle cromature gli assicurò che la moto era nello stesso punto dove l’aveva lasciata. Pur avendo vissuto la giovinezza nella stessa decade, era chiaro chi dei due fosse riuscito a mantenersi meglio. Rimase in piedi a fissarla, ebbe l’impressione di vedere uno sbuffo di vapore appannare l’aria attorno alle manopole della Honda e nella penombra gli parve un sorriso di scherno. Capì il momento. Immobile di fronte a lei, decise di credere che davvero bastasse avviarne il motore per fermare il tempo e dare gas per vederlo tornare indietro. Magari di trent’anni, quando era ancora un giovane motociclista ricercato.
Prese la Honda e la mise in giardino, accese l’impianto di irrigazione, quindi rientrò in garage e aiutandosi con una tanica di benzina diede fuoco alla sua collezione di auto d’epoca. Attese che le fiamme fossero alte, poi entrò in casa e prese la pistola: una Beretta calibro 9 degli anni ’80. Si fermò davanti allo specchio, alla sua destra il salone ricco di anticaglie pacchiane. Uno sbuffo di vapore seguiva i suoi gesti all’altezza del poster di Easy Rider.
Mentre inseriva le cartucce nel caricatore, confidava sul fatto che ci sarebbero voluti mesi, se non anni, per ricostruire le mistificazioni contabili con cui aveva svuotato i conti della società. Tutti i fondi neri che le aziende “amiche” tenevano nascosti in banca erano stati dispersi in rivoli di cui solo lui conosceva l’estuario. Prese il telefono, chiamò il suo commercialista e gli ordinò di disporre per il giorno seguente 834 bonifici da centosedicimila euro ciascuno. Le credenziali per accedere ai conti dai quali far partire i bonifici erano contenute nella mail che gli aveva appena inviato. Il commercialista non fece una piega, era abituato alle stranezze di Tiziano e a non chiedere mai perché: «okay, faccio tutto domani mattina. Ciao».
Tiziano, Easy Rider e lo sbuffo di vapore rimasero soli: la carta del poster cedette, un lembo si piegò fino a coprire la faccia di Henry Fonda, il vapore entrò dentro la canna della calibro 9, lentamente; Tiziano fece fuoco in salone, mirando a tutta la sua vita e giurò…
No. Non giurò niente: in fondo, i criminali non cambiano.
A.G. Cozzi