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Di benzinai neppure l’odore.
Ormai sono certo che rimarrò senza benzina su quest’altopiano deserto.
E’ stata una follia quella di cercare di arrivare in città partendo da casa mia in campagna, immersa nelle coltivazioni di hashish e oppio che da anni io e la mia famiglia curiamo per conto altrui.
Governo o bande religiose armate, non fa differenza. I rispettivi emissari che vengono a controllare il prodotto e lo reclamano come proprio hanno le stesse facce gonfie e livide da alcol appena immesso in circolo ma, in ogni caso, da mesi non viene più nessuno a prendere il carico che giace sotto le capanne e rischia di perdere valore.
Io non ho mai toccato un grammo del carico, non ho mai fumato nemmeno una sigaretta. Costano troppo le sigarette e poi servono per ingraziarsi i miliziani che guardano la mia motocicletta con occhi indecenti, per questo le teniamo a casa; ma il carico non si tocca: ti tagliano la mano, la prima volta; ti tirano via la testa, la seconda. Le mani mi servono, tutte e due, per guidare e coprire il chilometro che ci separa dalla fonte d’acqua, perlomeno d’estate.
Da mesi, saranno due almeno, non solo non viene nessuno a prendere il carico ma non riceviamo più né cibo né rifornimenti e non giungono più notizie degli scontri in città; mia madre è allo stremo delle forze, mio fratello minore gioca ancora a fare i castelli e le piramidi con le pietre e temo sempre che un giorno o l’altro scambi una pietra per una mina o viceversa; mio padre non lo so dov’è, si è allontanato due settimane fa per cercare benzina e cibo; non è ancora tornato.
Con quel che resta dell’ultimo pieno mischiato all’alcol medico ho avviato la motocicletta all’alba e mi sono diretto in città, sperando di trovare qualcuno. Anche questa notte ho fatto sogni brevi, a raffica, sventagliate di eventi non concatenati e di emozioni esibite senza porto d’armi; poi ho aperto gli occhi rapidamente e controllato la motocicletta pronta a partire, per andarmene di nascosto perché non ho il coraggio di dire a mia mamma che la sto lasciando sola con mio fratello di cinque anni: a restare ostaggio di questa situazione, di queste baracche umide, non resisto un giorno di più. Ora è estate e fa molto caldo, ma cosa sarebbe accaduto se fosse stato inverno? Forse il mercato della droga è in calo e aspettano che risalga per venire a prendere il carico, oppure da qualche parte c’è un checkpoint che sbarra la strada e nessuno vuole fare la prima mossa d’attacco per spazzarlo via e venire qui. In fondo siamo stati fortunati, siamo manovalanza preziosa ma non insostituibile fuori dalla guerriglia che insanguina la città e per questo dobbiamo stare attenti a non sbagliare nell’esecuzione dei nostri compiti di coltivatori: potrebbero portarci in città, potrebbero pure lasciarci liberi di fare quello che vogliamo e questa sarebbe la cosa peggiore perché in una nazione governata dispoticamente essere liberi significa essere prigionieri, in uno stato tiranno e malato non essere utile ti rende sacrificabile.
Le ultime notizie parlavano di forze di liberazione internazionali che hanno insediato un reggente e placato gli scontri; non ci credo: io fino a poco tempo fa continuavo a sentire i suoni sordi delle esplosioni in lontananza, di notte, nel silenzio.
Non c’è nessuno per la strada dritta e asfaltata a tratti, ma in una sola corsia, che porta in città. Credo che siano almeno 110 miglia, non lo so se c’è abbastanza benzina per farcela. Fino ad adesso non ho incontrato nulla, nemmeno una pecora o un convoglio militare; mi sento libero, invece, come mai. E’ la prima volta che percorro questa strada, la prima volta che mi allontano così tanto da casa in tutti i miei vent’anni di vita. Mi invade una viscerale sensazione di leggerezza, di voglia di scoperta che parte dalle mani sul manubrio e arriva alla ruota posteriore ormai liscia come un uovo; non sono solo: sono con me stesso, avverto la comunione con le cose che non si vedono, il vento, la velocità, il calore, le forze che si scaricano sulla mia schiena scoperta e bruciata; queste emozioni mi ottundono la mente, mi fanno perdere di vista il senso del mio viaggio, quasi non importa dove sto andando, tutto mi sembra più leggero e calcolabile senza fatica e sono pure sicuro che se incontrassi adesso i militari saprei come spiegare loro che li cercavo, che non sono fuggito dal campo di coltivazione, che non ho nostalgia della città ma ho solo desiderio di libertà e di vedere la mia fidanzata di quindici anni. La fretta che mi sento in corpo sta svanendo; se non fosse che temo le mine antiuomo e le cluster bombs, probabilmente devierei dal mio percorso, salirei sulle alture e darei uno sguardo verso nord, dove dicono che il clima politico sia più sereno, la vita più semplice, l’occupazione militare occidentale completa.
Appena arrivo in città faccio il pieno, cerco Tamra e la porto con me alla coltivazione; sento il bisogno di condividere con lei queste sensazioni irripetibili delle quali credo che non riuscirò a saziarmi tanto presto; cambierò la gomma di dietro, raddrizzerò il manubrio, renderò più accogliente la sella sforacchiata e storta e punterò verso nord, dormendo per terra o in qualche accampamento di nomadi e troverò il punto d’incontro tra il cielo e gli altipiani. Partiremo insieme, faremo quello che ci piace e senza costrizioni faremo la nostra vita serena. Basta una motocicletta: anche qui posso avere la libertà, non importa tutto il resto. Questo è quello che non vogliono farci conoscere: la libertà non si raggiunge e non ha senso combattere per ottenerla, la si sente dentro quando il vento ti accarezza le mani e il terreno ti scorre veloce sotto i piedi; se sei libero, lo senti. Il mio modo di pensare sta evolvendosi mano a mano che mi allontano dalla coltivazione e il carburante si consuma; forse diventare uomini è questo o forse, invece, è quello che tutti gli uomini dovrebbero diventare per deporre le armi, lasciare il mondo in pace e goderselo a cavallo di una motocicletta.
Sento pure meno caldo.
Guidare ti riempie la mente di pensieri profondi e dedicati alle persone che ami.
Voglio andare al nord e conoscere persone, oppure viaggiare in motocicletta fino a non riuscire più a contenere la mia felicità.
Mi piace guidare.
Omid, poi, a bordo della sua motocicletta scassatissima giunse fino alla città; o meglio, fino a ciò che ne trovò: un enorme cratere denso di rovine.
Niente città, niente Tamra, niente miliziani né polizia governativa, niente cibo; ovviamente niente benzina.
Mentre abbandonava la moto adagiandola per terra scioccato da tanta brutale devastazione, si chiese cosa, chi, come. Semplicemente non c’era nulla: solo un cratere del quale non vedeva il bordo opposto a quello sul quale si trovava. Sulle pareti, resti irriconoscibili di automobili e case, pietre che forse prima erano qualcosa, un tanfo acre. Omid sperò di non vedere gente morta. Ma non correva il rischio, in giro nessun cadavere né parti umane. Il cratere emanava calore, come la bocca di un vulcano. Omid ad un certo punto si illuse che fosse stato un evento naturale a provocare tutto questo, il suo animo rinunciò a pensare che potesse esistere tanta idiota brutalità.
Da lontano sentì arrivare prima il rumore poi il vento di due grossi elicotteri militari che si fermarono sospesi in aria a qualcosa come trenta metri da lui. Vide distintamente i volti dei piloti coperti dai caschi, probabilmente loro vedevano perfettamente la faccia da bambino smarrito di Omid, il colore dei suoi occhi, le perle di sudore che luccicavano al sole di un pomeriggio di marzo.
Omid si sbracciò, forse qualcuno avrebbe potuto spiegargli cosa fosse accaduto alla città, aiutarlo a portare in salvo sua mamma e suo fratello, cercare suo padre e Tamra, dare un’occhiata alla sua moto e dargli un po’ di benzina. Non di libertà ma di queste cose aveva bisogno: lui era già libero.
Il vento prodotto dalle eliche era fortissimo, il rumore pure. Omid urlava nella sua lingua una litania di implorazioni disperate ma inudibili.
Trenta metri sopra di lui, sei ragazzi liberi inviati a spargere democrazia e libertà. Un paio di loro sognavano di tornare presto in patria e fare un giro in moto al ritmo di “po- ta- to-po- ta-to”: presto, appena il gruzzolo messo da parte fosse stato sufficiente a comprare una casa. Altri speravano di non tornare perché a casa non avevano un altro lavoro, uno di loro pensava al figlio di pochi mesi visto solo in foto.
Nelle cuffie dentro gli elicotteri c’era musica distorta, messaggi di servizio e una parola.
Shoot.
Antonio Privitera
Foto: Robin Wyatt