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Credo che se Dio avesse veramente voluto vedere i motociclisti viaggiare in gruppo non avrebbe reso così sapide ed entusiasmanti le gite in solitaria o con al massimo un complice sul sellino posteriore; gite alla scoperta del nulla e spesso senza meta, pronte a cambiare itinerario alla velocità che si preferisce.
Sto in moto ogni giorno dalle sette alle sette e questa è la ragione per la quale non ho bisogno di sfogarmi il fine settimana; con le classiche uscite di gruppo, quelle che iniziano con un raduno presso un bar la mattina della domenica e che inevitabilmente epilogano in un agriturismo, non vado più d’accordo.
A me è capitato di motociclettare per mattine intere, trottando a trenta o quaranta all’ora solo perché mi andava, ma se avessi avuto la necessità di stare insieme al gruppo avrei dovuto adattarmi all’itinerario, alla velocità, persino alle soste. Mi sono chiesto perché anche quando faccio la cosa che mi piace più di tutte, devo scendere a compromessi. No, no, no, ha esclamato la mia lady di ferro, e se lo dice la mia motocicletta lo ribadisco pure io: la moto è per tutti e chiunque ha diritto di viverla come gli pare.
Nove mesi fa non era raro che prendessi la motocicletta la sera tardi e facessi una lunga scorribanda solitaria tra monti, tornando a casa all’ora in cui si poneva il busillis se dormire vestito quelle due orette avanzate dalla notte o rimanere sveglio e andare al lavoro. Erano giri in moto che mi servivano per dare modo ai pensieri di venire fuori: probabilmente i miei pensieri erano così veloci e sfuggenti che solo in sella riuscivo a raggiungerli.
Ma le cose cambiano e, da quando la mia vita ha fatto altrettanto, i giri notturni in moto non li faccio più. Un anno fa ho troncato con la mia fidanzata: una donna che per sei anni ha reso la mia vita uno splendido inferno. Lei si chiamava Adele e ci siamo lasciati al telefono mentre alle quattro di notte ero in cima ad una montagna a raschiare il fondo del barile della mia incazzatura verso di lei.
Era una di quelle sere nelle quali non sopportavo nemmeno il suo petulante, ostinato, respiro; dopo cena senza dire niente presi la mia moto fabbricata in riva ad un lago, destinazione monte Sospirius: trenta chilometri di statale e quaranta di autostrada, per trovare un freddo che blocca la mimica facciale e ti rende espressivo come uno yeti. Comunque, Adele mi chiamò proprio mentre sul belvedere più alto spegnevo il motore e mi preparavo a godere della vista della mia città by night. Porco mondo. Prevedevo una lunga telefonata traboccante livore ma inevitabilmente cedetti alla curiosità di sapere cosa potesse spingere una donna piacente, colta e a suo modo raffinata a sforacchiarmi il cervello con le sue sadiche paturnie, ridurlo ad una forma di emmenthal quindi continuare e scendere col trapano delle sue ossessioni fino alle parti basse per completare l’opera di demolizione.
Questo era il cliché: lei insisteva spaziando dalla rabbia al pianto disperato e accusandomi di ogni nefandezza e insensibilità, io per i primi dieci minuti paravo i colpi sbracando in metafore colte per affermare che mai e poi mai avrei scusato comportamenti inaccettabili, ma puntualmente all’undicesimo minuto mollavo gli ormeggi e mi lasciavo travolgere dalla tenerezza che solo una coppa D riesce ad esprimere; durava poco: per un nulla si ricominciava d’accapo con insulti, recriminazioni e insoddisfazione mista a rabbia rendendo la situazione recursiva ed insostenibile pure ad un santo.
Comunque, risposi.
- Pronto Ade, che cè?!
- tu… te ne sei andato… (singhiozzando)
- Acutissima osservazione, ma ora torna a letto vedrai che più tardi sarò a casa calmo e sereno. Lo sai, andando in moto mi rilasso…
- …sigh! Ma sono le due!! Più tardi quando? Ma tu lo sai dove sono io?
- Guarda, Adele, sono sul monte Sospirius a guardare il panorama e lì in mezzo c’è pure casa mia… se lanci un bengala mi confermi la tua posizione.
- Str…!
- Ah-ah-ah-ah…bambina cattiva, niente parolacce!
- Non ti importa nulla di me!
- Rieccoci! Siamo tutti pronti per l’ennesima puntata della serie “capricci & pretese”?
- Tu non comprendi le mie legittime richieste, ti rendi conto che ho trent’anni?!
- E io trentasette, abbiamo finito con l’ufficio anagrafe?
- Io ho trent’anni e voglio un figlio, lo esigo!
- Guarda, ho letto un annuncio proprio ieri su Bimbo.it, ne vendevano uno nuovo nuovo, manco andato al nido, pochi chilometri gattonati, consumi ridicoli, ha solo bisogno di un box per la notte!
- Non puoi sempre metterla in farsa… sei il solito!
- Adele, scusa, non sono il solito: siamo alle solite…
- Egoista!
- Adele, smetti di giocare e guarda in faccia il mondo, tu lavori?
- Ma che c’entra! Ora per fare un figlio c’è bisogno di lavorare?
- Tecnicamente no; praticamente, è un po’ diverso… per mettere su una famiglia e fare la brava mammina…
- Massimo, sono stufa di questi discorsi: io me ne vado e non mi vedi più.
- Prima assicurati di chiudere il gas e spegnere tutte le luci, Adele, non vorrei essere costretto a vendere la moto per pagarmi le bollette.
- Massimo, ascolta: io esco dalla tua vita e non torno più se non mi assicuri che vendi la motocicletta e metti la testa a posto. Pensaci: una famiglia, una casa, noi due.
- Adele, mi piacciono due cose della mia vita attuale: una è la motocicletta e l’altra è levarmi le scarpe che compro sempre una misura più piccola per provare almeno una volta al giorno un certo senso di liberazione. Lavoro part time nella schifosissima agenzia di viaggio di mio zio guadagnando quanto mio padre negli anni ’60, la mia moto ha 100.000 chilometri, non esco, non fumo; lasciaci in pace, a me e alla moto, e prenditela con qualcun altro se il mondo non ti permette di realizzare il sogno del principe azzurro… ah, e un’altra cosa…
- Addio!
Adele troncò la conversazione. Io mi godetti il mio panorama notturno con un toscanello scroccato il giorno prima ad un mio amico avvocato, tirando ogni tanto una pedata alle gomme e pensando che il mese prossimo avrei dovuto cambiarle. Adele, no. Adele era una scocciatura della quale non sapevo fare a meno. A volte immaginavo la mia vita senza di lei e mi sembrava di levarmi un peso dalle spalle, a volte invece… rimanere solo è brutto. Forse avrei potuto ancora da spendere il mio fascino un po’ da bohémien e qualcun’altra ci sarebbe cascata, oppure forse è vero che rimane solo chi lo desidera.
Risalii in moto che erano le quattro guidando come un automa per strade deserte e perdendomi subito nei miei pensieri, unito in una simbiosi tale che non avrei saputo dire dove finissero i miei arti e dove invece iniziava il mezzo meccanico; ricordo che mi fermai al distributore automatico e misi i soliti cinque euro di benzina; controllai il telefono, niente. Era un cliché. Arrivando a casa avrei potuto parlare con Adele per chiarire, magari con più calma e non telefonicamente, che secondo me i tempi non erano propizi per le spese e le necessità di un matrimonio o di una gravidanza. Avremmo potuto goderci quello che il momento ci permetteva, rinunciando alle angustie delle pretese non concesse e delle attese che a furia di sperarle diventano chimere.
Avrei potuto dirle tutto questo se l’avessi trovata a casa.
Ma il mio appartamento era vuoto, come la sua parte di armadio. Il peso dalle spalle se ne era andato frettolosamente e adesso avevo tutto a mia disposizione. Cercai invano un bigliettino, un messaggio. Sedetti sul divano maneggiando indeciso il telefono, poi la chiamai ma aveva il cellulare spento e a quel punto crollai, dormendo fino alle tre del pomeriggio di un sonno leggero e crespo come l’alluminio accartocciato attorno i polli allo spiedo. Quando mi svegliai, capii che Adele non sarebbe tornata, simulai un moto di indifferenza per mascherare un confuso dispiacere e andai in agenzia di viaggi.
Uscii dal lavoro alle otto, appena in tempo per trovare il distributore aperto e misi quattro euro di benzina nella moto, facendo finta di voler solo rabboccare il pieno. Il mio telefono squillò, era mia mamma che invitava me e Adele al pranzo di Pasqua. Mancavano tre giorni a Pasqua, le avrei fatto sapere; fu in quell’istante che provai l’irresistibile impulso di chiamare Adele per dirle che potevamo trovare un compromesso, un modo per rimanere assieme, che la vita in due non è un giro in motocicletta da gestire da solo, si possono trovare dei punti in comune con il tuo compagno di viaggio. E che andare al pranzo di Pasqua da mamma da solo era brutto.
Ma non la chiamai né lo feci successivamente, perché credevo che di parole ce ne fossimo dette abbastanza. Bisognava cambiare le cose.
Cominciai a rivoluzionare la mia vita e le mie abitudini, con l’idea fissa di richiamare Adele solo quando avrei potuto donarle tutta una collezione di evoluzioni tra cui il compromesso con la mia intransigente e pretestuosa rigidezza nell’intendere la vita come un affare mio e mio soltanto. Mi licenziai e andai a lavorare a tempo pieno come fattorino di un’agenzia di recapiti e parallelamente avviai un’attività di disbrigo pratiche che lo stare sempre in giro con la motocicletta mi consentiva di svolgere; i miei guadagni salirono un po’, non male.
Incominciai pure a comprare scarpe della mia misura, rinunciando a quel vezzo un po’ estremo e smisi di andare in moto la sera sia perché troppo stanco, sia perché dopo 100 chilometri percorsi in città anche la lady di ferro esigeva il suo riposo.
Con metodo, come un meccanico misi mano alla mia vita, aggiustandone le imprecisioni di accoppiamento tra una parte e l’altra, carburandola con precisione per darle regolarità e coerenza ad ogni regime. Ero diventato la metafora della mia motocicletta, alla quale assicuravo sempre una dignitosa cura della sostanza e dell’estetica: mai sporca, mai con un particolare poco curato.
Passati nove mesi in dolorosa solitudine, decisi che la metamorfosi era compiuta e mi sentii pronto a chiamare Adele e a farle vedere i mutamenti che avevo fatto per lei. Nove mesi non erano poi tanti, se mi amava veramente. Era giusto il tempo che mi era servito per realizzare caparbiamente il suo sogno del principe azzurro e, se necessario, mi sarei pure fatto biondo. Era una mattina di sole e mi sentivo bene, forte, assertivo: seduto a gambe larghe sulla moto, sguainai il telefono come l’excalibur e chiamai. Numero inesistente.
Sgonfio come un 180/55 a pressioni trialistiche mi accasciai sul serbatoio, in riserva come la mia autostima.
Mi aspettavo un finale diverso. Un finale grandioso, un finale memorabile e risolutivo, comunione di sentimenti e di aspirazioni realizzate; di certo un finale meno amaro. Oppure una grande sorpresa, un colpo di teatro che a raccontarlo in cima al passo la domenica mattina avrebbe stupito tutti.
Invece ero lì, a gambe larghe sulla mia aquila a due valvole, in mezzo alla strada, diverso da come ero nove mesi fa e annegato nel mio compromesso; l’unica cosa che ancora mi legava al passato era la mia motocicletta, un graffio per ogni sbaglio che avevo commesso e niente a ricordare tutte le cose che avevo fatto per bene.
Non mi restava che mettere la prima e andare avanti.
Clonk.
Gas.
In fondo era quello che avevo sempre desiderato, no?