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Era la mia prima motocicletta nuova dopo catorci indimenticabili come il Cagiva SXT terza mano e il VF500 di uno che ci era morto. Una montagna di cambiali firmate da mio zio Alessandro e l’assicurazione con vincolo a favore della finanziaria rispecchiavano, da una parte, la cocciutaggine della mia passione per le moto e, dall’altra, l’assoluta sfiducia del sistema economico nella mia capacità di restituire l’importo finanziatomi per la prima motocicletta nuova di pacca della mia vita. Lo dico senza pudore, era una Kawasaki EN 500 custom; correva l’anno ’91 ed ero fidanzato con una ragazza dolcissima che mi urlava nelle orecchie “è bellissimo… non lo fare più!!” quando la moto saltava i dossi delle rotaie della circumetnea volando per dieci metri, indecisa se ripetere l’esperienza o menarmi per la strizza che le procuravo con le mie intemperanze tardo adolescenziali.
I primi mille chilometri arrivarono nell’arco di una settimana, forse meno, assieme al temuto momento di portare la Kawasaki all’assistenza autorizzata per il primo tagliando. Mentre alle moto precedenti la manutenzione l’avevo sempre fatta io - approssimativa, volenterosa e ignorante ma molto, molto economica – quel giorno ebbi il privilegio di varcare per prima volta, con un libretto di garanzia sotto la sella, la soglia di una vera officina.
Ero un ragazzino e temevo di non riuscire a pagare il tagliando, intimidito dalla disinvoltura del meccanico nel brandeggiare strumenti e attrezzi strani su motociclette prestigiose che, per costo e prestazioni, vedevo distanti da me anni luce; eppure venni accolto con un sorriso: non venni ritenuto né un pezzente, né un pollo cui cavare quei quattro denari faticosamente racimolati, come invece altri – sedicenti - meccanici avevano già tentato di fare.
Feci simpatia, credo, e da quel momento in poi mi sentii il benvenuto in un luogo che a guardarlo distrattamente non sembrerebbe nulla di speciale ma che a viverlo come l’ho vissuto io negli ultimi vent’anni, capisci che un’officina può essere un antro, un conciliabolo o un laico confessionale dove chiedere comprensione ed aiuto per uscire dalle situazioni più imbarazzanti e soprattutto può riempire di significati e di storie un’intera esistenza.
Da quando li conosco, Guido Buscema e la sua officina non sono mai cambiati, né invecchiati. Sono cambiate le moto che passano di lì, certo, ma forse neanche tanto se è vero che molti clienti con mezzi agèe tornano a farseli restaurare e così, se nel 1991 vedevi un GSX750R in assistenza, oggi lo puoi trovare sullo stesso banco ma sotto intervento conservativo. Negli anni, alle pareti si sono aggiunti pochi poster, nell’ufficio sono soltanto aumentati gli attestati e i riconoscimenti incorniciati; l’età dell’officina sembra indefinita mentre la sua esistenza sembra prescindere da tutto il mondo esterno.
Guido è un distinto ragazzo di cinquantatré anni che ti parla felice e con serena competenza di meccanica motociclistica: esibisce un eloquio in un italiano impeccabile tanto che alcuni lo chiamano “il professore”, un po’ per dileggio, un po’ per invidia e fai fatica a collocarlo nel talvolta rustico scenario dei meccanici catanesi.
Da giovanissimo Guido frequenta il liceo classico ma appena diplomato si iscrive in ingegneria meccanica, passa brevemente attraverso Lamborghini e Ferrari con il sogno di diventare un meccanico di F1, poi torna a Catania abbandonando aspirazioni automobilistiche e università per mettere a frutto le sue doti in una concessionaria Guzzi e un anno dopo, dato che le moto che gli amici gli depositavano nel garage di casa per “un’occhiata” iniziavano a essere troppe, si mette in proprio. Da lì in avanti diventa un riferimento per molti appassionati.
Fioccano gli incarichi per eseguire l’assistenza ufficiale (Kawasaki, Yamaha, MV, Suzuki), una volta chiaro a tutti di trovarsi a che fare con un tecnico preparato ben oltre la media e capace di trovare con piglio analitico il bandolo della matassa in guasti ritenuti irresolubili, stupendo pure gli ispettori delle Case.
Le sue qualità vengono riconosciute pure dal centro di sperimentazione Pirelli-Metzeler di Giarre che gli affida le proprie moto per la manutenzione straordinaria: moto che, è facile capire, subiscono test e stress estremi. Una volta Guido mi raccontò di un Blackbird 1100 con l’ingranaggio della sesta demolito, io mi indignai e stupii ma lui aggiunse che era stato l’unico inconveniente dopo moltissime ore a Nardò senza soste e in sesta al limitatore: “vabbè, ci può stare; il resto del motore era perfetto”, chiosò.
Eppure nonostante i riconosciuti meriti lui non cambia, stessa faccia, stessa onesta gentilezza, stesso lampo negli occhi quando mette le mani - nude, perché con i guanti si perde il piacere del contatto e l’intimità sensibile viene meno - su un (una? …l’eterno dilemma) Guzzi o su una Ducati e soprattutto stessa caparbia intransigenza in due cose: niente assistenti né garzoni di bottega e soprattutto niente scooter, su quest’ultimo punto il cartello all’ingresso dell’officina è lapidario: “non si riparano scooter di nessun genere”. Esclusivamente motociclette.
Cavolo, mi sono detto, ma perché? E questo interrogativo me lo sono tirato dietro per quasi vent’anni, non avendo fino a ieri il coraggio di bucare il rispetto reciproco e la sua riservatezza con una domanda magari inopportuna.
Così, con la mia impertinenza di sempre e con il minimo sindacale di autorevolezza che comunque l’avere doppiato la boa dei quarant’anni mi garantisce, ieri sera prima della chiusura lo coopto per saperne di più.
Ci sediamo nel suo ufficio da tre metri quadrati e lui inizia a raccontare. Io ascolto, non ho bisogno di fare domande perché Guido lega tutto fluidamente, instillandomi la sensazione che ogni vero meccanico di motociclette viva nel corso della sua attività una gloriosa epopea motociclistica cui noi semplici utenti delle due ruote possiamo solo aspirare. Passa agilmente dal racconto dei suoi inizi alla situazione attuale, fatta di gente che arriva in officina con la moto rotta ma con la soluzione in pugno perché “c’è scritto sul Forum…”: poi il più delle volte il problema è un altro ma lui non dice niente e si limita a riparare la motocicletta e a fare felice il proprietario; mi conferma che oggi se non hai concrete basi di elettronica ed elettrotecnica non capisci nemmeno il 50% di quello che la moto vuole dirti con un guasto magari a prima occhiata banale ma che all’opposto può avere conseguenze nefaste per il mezzo; e poi persone, persone, persone. Mi parla di concessionari, importatori, tester e dei tanti motociclisti che nel tempo sono passati di lì, molti per diventare un’assidua presenza con la scusa del saluto o del piccolo guasto, alcuni di questi motociclisti sono scomparsi: qualcuno lasciandogli la motocicletta per una riparazione banale e non venendo mai più a prendersela (l’avranno dimenticata? Un giorno passeranno a reclamare la loro cavalcatura divenuta d’epoca? Vittime della lupara bianca oppure fuggiti con il biglietto vincente della lotteria? Mah, certa gente…); certamente non tornerà a riprendere la propria moto distrutta, ma oggi in lenta riparazione in un angolo calmo e intimo dell’officina, quel ragazzo che non ce l’ha fatta: i genitori desiderano comunque riavere in garage la motocicletta come ricordo del figlio scomparso.
Ma il bello arriva con gli aneddoti, tanti:
“…quando arrivò quel tale con la coca-cola dentro il motore del Morini GT, gli dissi che poteva tornarsene da dove era venuto, non importava se le sue intenzioni erano di sbloccare il motore fermo da un po’. Però il motore girava…”
“… e dopo avere velocemente sistemato una moto che soffriva di shimmy durante un test Pirelli, venne Cereghini a farmi i complimenti.”
“…una domenica mattina molto presto, mi chiama Salvo Pennisi dalla Tunisia: era per ringraziarmi di come gli avevo messo a punto il suo vecchio Dominator col quale stava affrontando il deserto.”
Non ha il timore di mostrare com’è fatto, com’è stato impegnativo arrivare fino a lì e nemmeno il pudore di tenere i veli sopra una delle sue Ducati, una splendida 888 SP2, e alla sua (suo? …fate voi) Le Mans 1000, erede della 850 prima serie venduta anni addietro ma oggi saldamente in mano ad un amico.
Da come parla, mi sono fatto l’idea che Guido sia un intimista. Ascolta le moto e le storie che sanno raccontare ma vuole lavorarci da solo per capirle, dare loro i suoi consigli ed infine augurargli buon viaggio. Per questo non ama avere assistenti e quei pochi che lo hanno affiancato per brevi periodi non erano meccanici professionisti ma piuttosto amici prestati alle motociclette per la loro appasionata competenza, con cui condividere le storie e le scoperte che le motociclette sanno regalare anche da ferme.
Lui non ne accenna, ma credo che per Guido ogni moto abbia un’esperienza da vivere e lui, riparandola e curandola, gli permette di continuare a percorrerla.
Gli scooter storie da raccontare non ne hanno, forse l’utenza è diversa e spesso affatto passionale, probabilmente gli arzigogoli costruttivi degli scooter moderni li fanno apparire, agli occhi di un tecnico come Guido, monumenti all’inutile complicazione, capaci solo di eseguire un compito ma non di smuoverti qualcosa dentro. Non si riparano scooter di nessun genere; ora ho capito, Guido. Il tuo non è integralismo motociclistico ma semplice desiderio di affondare le mani su un mezzo che piace e gratifica.
E’ sera tardi, abbiamo ampiamente sforato l’ora di cena: Laura mi chiama per sapere se sono ancora vivo, i miei figli Gaber e Sofia si aspettano la buonanotte ed io sono ancora qui, in officina, con quest’odore di moto che mi si è incollato e sa di buona cucina, di laboratorio: non a caso anche le pasticcerie sono laboratori; ora che mi viene in mente, quest’odore peculiare è anche lui identico da vent’anni.
Ringrazio Guido per il tempo che mi ha dedicato accorgendomi solo adesso delle sei o sette moto parcheggiate in strada da entrare in bottega prima di abbassare la saracinesca. Mi offro di aiutarlo per almeno contraccambiare la sua disponibilità ma da come mi dice “grazie ma non c’è alcun problema, faccio da solo”, intuisco che forse quello è il momento più puro del suo essere meccanico e motociclista, quello in cui le tocca una per una, una dopo l’altra le mette a dormire con la promessa che quando domani usciranno da quell’officina continueranno a viaggiare.
Siamo fuori sul marciapiede a salutarci e arriva l’ultimo cliente: sudato come un santo spinge un Guzzi California impolverato. Guido gli sorride e aggiunge “ci penso io”; uno sguardo, un’intesa col proprietario che si allontana e la moto resta pure lei sulla strada mentre le altre varcano una dopo l’altra la soglia dell’officina; colgo la palla al balzo e faccio l’invadente: prendo l’iniziativa, metto le mani sulle corna di bue e spingo il California all’interno. Dai palmi sento i mugugni di questa moto, la sua voglia di levarsi di dosso la polvere e di rimettersi in marcia, le avventure che racconterà a Guido quando lui rimarrà da solo con lei e avrà tutto il tempo del mondo per riportarla a gioire.
Un po’ di sana invidia non è peccato.