I racconti di Moto.it: "Pilota della domenica"

I racconti di Moto.it: "Pilota della domenica"
Stamattina mentre il mio monovolume era pieno di parti speciali stipate in scatoli anonimi, vengo fermato per un controllo da tre signori in divisa grigia e gialla...
15 giugno 2012

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Stamattina mentre il mio monovolume era pieno di parti speciali stipate in scatoli anonimi, vengo fermato per un controllo da tre signori in divisa grigia e gialla. Mi chiedono cosa ci faccio con il bagagliaio pieno di tutti quei pezzi di motociclette: rispondo che mio figlio diciottenne smonta la sua moto e poi mi tocca portare i pezzi dal meccanico perché non sa rimontarli; non è la prima volta che mi accade di passare un controllo e per evitare rogne basta il solito sorriso e un arrendevole fare accomodante. Ma i tre tutori della legalità vedono due cerchi anteriori, tre pinze freno, sei silenziatori, fanno due più due e non la bevono; mi portano in caserma, dentro una camera con tre scrivanie strette tra nove sedie e una finestra. I numeri li ho sempre odiati.

Chiudono la porta, mi fanno un sacco di domande ad alta voce minacciando di andare a fondo e di fare tanta pubblicità alla vicenda, passando alle maniere forti se non faccio la persona ragionevole, tanto hanno già capito. La mia carriera è al capolinea. Non resisterei ad avere il dito puntato addosso da tutti: il mio coniuge e mio figlio, ignari e incolpevoli, cosa direbbero? Va bene, parlo, confesso tutto. Di fronte agli increduli tutori della legge vuoto il sacco, la mia diga di falsità cede in un fiume di rivelazioni e sentirmi parlare mi fa bene, ne avevo bisogno, non mi importa più di perdere i miei illeciti guadagni, ma solo di cambiare vita coltivando la speranza di non mentire più alla mia famiglia senza avvertire un indefinito e amaro senso di colpa. Dopo cinque minuti di monologo non ho più niente da dire, né fiato. Aspetto.

I tre si guardano l’un l’altro. Quello con due stelle e una torre sulle spalle arriccia un angolo della bocca verso l’alto, mostra i denti, sbuffa dalle narici a tempo di bossanova. Ride. Scoppiano a ridere tutti quanti, maledetti: stanno certamente infierendo, compiacendosi di avere fermato un abituale criminale e forse me lo merito. Invece no, mi invitano ad andarmene da lì in fretta che loro hanno cose più serie da fare.
Porco mondo. Così non vale.

Non insisto, mi alzo dalla sedia e uno dei tre militari mi guida verso l’uscita di servizio passando per il parcheggio interno della caserma dove, lucide e perfettamente allineate tra di loro, vedo alcune tra le più splendide e costose motociclette sportive della produzione mondiale.

Sono le due di pomeriggio sulla strada che costeggia l’edificio militare, ho caldo; il monovolume è a pochi metri, apro il bagagliaio ed è vuoto; dopotutto, me lo aspettavo. Del contenuto nemmeno l’ombra, evaporato. Non credo di avere nemmeno il diritto di arrabbiarmi, mi è andata liscia.

Però, peccato. Per una volta che ho detto la verità.
Mi tuffo in una modesta ma frequentata enoteca a pochi passi dalla caserma, chiedendo un Chianti. Sigaretta. Sì, anche se è vietato.
Metto gli auricolari e seleziono: Queens of the Stone Age, “Auto Pilot”.
L’alcol toglie lucidità; prima di sedermi su questo sgabello, in mezzo a questa compagnia caciarona dalla risata facile, non andavo oltre lo spumante per il mio compleanno e una dose tutto sommato ridicola di Chianti mi mette voglia di parlare ad alta voce, tanto qui il brusio è forte e chi mi sente, se mi sente, non capirebbe.

Ho trascorso gli ultimi venticinque anni a rubare motociclette, porco mondo.
Le rubavo in modo democratico, senza discriminazioni tra orientali ed europee; le americane, quelle, no: i loro proprietari sono già abbastanza sfortunati senza che io aggiunga tragedia a sciagura. Gli scooter, nemmeno. Rubare scooter è da ragazzini e io avevo da difendere reputazione e deontologia professionale.
Le mie vittime preferite erano i pistaioli e le loro moto elaborate: freni, scarichi, motori speciali. Anche il conto del meccanico è speciale ma, a certi motociclisti, dilapidare montagne di euro per abbassare il tempo sul giro di un paio di decimi pare un vanto. Introversi emuli di famosi campioni cui si ispirano segretamente, gonfi di debiti quanto basterebbe per dichiarare bancarotta e rigidi in sella come manichini: i piloti della domenica.

Quelli attesi a casa da nervose mogli insofferenti e sciatte con il bebè tra le braccia, o da fidanzate pazienti e tutto sommato felici; e che dire di coloro la cui moto trascorre l’inverno sollevata da terra? Sono quelli che “se avessi avuto i soldi…” e nel frattempo riempiono di congetture i forum su internet, millantano conoscenze e competenze di alto livello dietro un nickname adolescenziale, sparendo non appena vengono smascherati per poi fiorire sulle strade a primavera. Ogni tanto se ne stampa uno su un muro, la domenica pomeriggio dopo la MotoGp.

Anche io frequento i forum e i siti specializzati e ho cercato di capire tutta questa gente, eppure non l’ho mai compresa veramente limitandomi, io che non credo in nulla, ad una sincera ammirazione un po’ come ammiro i cristiani praticanti; però ho scoperto che senza di loro il settore motociclistico chiuderebbe. Tengono in vita migliaia di famiglie, alimentandolo con una passione che se la metti sul razionale non sta in piedi. Io dico meno male che ci sono loro, altrimenti a chi le rubavo le moto.

Bastava poco: nei giorni di prove libere in pista li avvicinavo ai box, blandendoli, magnificando la loro superba guida e ammirando i grandi sacrifici compiuti per andare così forte, più di chiunque altro; poi davo appuntamento la sera stessa al sedicente pilota in un bar o in un localino. Ci cascavano tutti: sonnifero nel bicchiere e furto del furgone con moto dentro. Ritengo un’indegnità il furto di mezzi a quattro ruote e in due ore riportavo il furgone vuoto al proprietario al quale facevo poi credere di sentirmi pure io in preda ai postumi di una droga potentissima, con gli inevitabili annessi e connessi. A volte era piacevole, a volte era un capriccio, altre una sorta di espiazione per sentire di meritarmi il ricavato della vendita dei pezzi della moto appena rubata.

La stagione dura poco e io cambiavo ogni settimana circuito recandomi anche all’estero ma, triste ammetterlo, nella mia rete cadevano solo motociclisti italiani.
Poi, finita la “raccolta” primaverile ed estiva, veniva il tempo di smontare tutto: in inverno smembravo le moto con le mie piccole mani e le rivendevo pezzo per pezzo ad ingordi acquirenti; anche loro piloti della domenica: gente che tiene al proprio tempo sul giro più che all’onore della propria figlia sedicenne, ma con la sola differenza che la verginità non la ricompri da un ladro al 40% del prezzo da nuova.

Si chiama ricettazione e in Italia è un reato considerato molto più grave del furto. Le pene sono più severe, giustamente.

I timidi approcci via mail, poi l’incontro con onesti padri di famiglia o con ragazzi in abiti firmati e le scarpe bucate dove non si vede, falsi come la loro pretesa di essere considerati perbene solo perché illusi di non sapere la provenienza di quello che hanno appena acquistato. Come mai nessuno di loro mi ha mai chiesto la fattura o la ricevuta fiscale, come fanno anche dal calzolaio? Perché tutti questi rispettabili bellimbusti non denunciano pure me come hanno appena fatto, con una telefonata anonima, col panettiere che non ha battuto lo scontrino? La delazione premiata, il clima da guerra sociale, il gusto nel vedere il vicino di casa rovinato dal rigore fiscale e giudiziario, lasciamo tutto questo nel recinto delle cose serie: qui stiamo solo parlando di divertimento e passione motociclistica, vero? Siamo degli ipocriti, senza eccezioni.

Più di una volta la stessa ignara vittima di un mio furto mi ha poi contattato cercando qualche componente speciale per il bolide col quale aveva sostituito quello sparito ad opera mia. È un giro, una ruota, siamo tutti degli ingranaggi inconsapevoli che mirano solo al personale soddisfacimento di accettabili pretese di vita e la mia è piena di sotterfugi: nessuno, tantomeno la mia famiglia, ha mai nutrito il minimo sospetto su come mi guadagno da vivere; giustifico le mie assenze con la simulata attività di agente di commercio.
Non poteva durare.

Spero che mio figlio non scopra mai quello che ho fatto per garantirgli una vita serena, se mi avessero arrestato sarebbe stato un disastro. Credo sia comunque arrivato il momento di smettere, tanto da oggi in poi sarò sempre ricattabile.

La sigaretta mi si è spenta tra le dita, e il Chianti è finito.
Siamo tutti ingranaggi l’uno della vita dell’altro e non ci sono riferimenti per la messa in fase.
Devo trovarmi un lavoro onesto, porco mondo.

Dovrebbe fare lo stesso pure quell’uomo in divisa grigia e gialla che sghignazzando mi accompagnava all’uscita della caserma, avrà avuto la mia età; l'eco delle sue parole si ripete all’infinito nella mia testa, eravamo sulla porta e lui mi stringeva la mano:
- Torni presto a trovarci, signora. E non a mani vuote, mi raccomando.
Una signora non ruba, una signora non si sporca le mani di grasso, una signora non dice parolacce. Così gli risposi solo:
- Fottiti.


Dopo un paio di secondi di assoluto silenzio, qualcuno inizia a battere le mani, un signore in fondo alla sala posa il calice di Nebbiolo, poi si unisce l’oste e in pochi istanti l’intera enoteca esplode in un applauso, mentre Marina sfila dai lobi gli auricolari e sorride: la canzone urla ancora “Auto Pilot and no control…”.


Antonio Privitera

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