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Capisco, signor Console. Ora le spiego: c’era caldo, ma qui c’è sempre caldo, specie quando i monsoni rendono l’aria così umida che ti sembra di respirare salsa di soia; quel giorno maledetto ero con la mia motocicletta su una montagna al confine tra la Cina e questo paese piccolo ma aggressivo.
Tenendo la moto accesa tra le gambe stanche e poggiate le braccia sul manubrio, attendevo che l’adrenalina calasse; il mono ad aria stantuffava con la stessa regolarità tenace dei battiti del cuore e scuoteva il mio corpo, esausto dopo quella lunga scarpinata in fuoristrada. Le vibrazioni da fermo non erano fastidiose ma erano profonde: scavavano nel mio stomaco una stanchezza felice, della quale non riuscivo ancora a riprendermi e che mi inchiodava ancora in sella come un cristo sulla sua croce, con la moto immobile e lo sguardo perso verso la pianura verde e selvaggia diverse centinaia di metri più in basso. Dopo qualche minuto scesi dalla moto gagliardamente e tolsi il casco, ero solo, da molti chilometri non incontravo nessuno, felice di essere arrivato così lontano, inoltre provavo una sovreccitata ansia al pensiero di poterla raccontare quando sarei tornato a casa. Perché prima o poi sarei tornato.
Non ebbi il coraggio di spegnere il motore: forse temevo che il silenzio mi facesse sentire il vuoto attorno e improvvisamente mi sentii solo; Dio mio, ero impreparato: solo la presenza a me stesso avrebbe potuto garantirmi il passaporto per tornare alla mia vita o almeno a quella che mi ero temporaneamente lasciato alle spalle in Italia. Cercai di resistere alla tentazione di cercare nelle tasche il cordone ombelicale che tiene molti di noi ancorati alle responsabilità senza le quali ci sentiremmo un po’ persi e pensai “’fanculo i social network”, lasciando sbraitare invano la naturale propensione al narcisismo che alberga in ogni sano motociclista. Comunque, lo tirai fuori cinque minuti dopo con un gesto compulsivo e notai la totale assenza di rete. Meglio.
Ero partito per un giro in moto un sabato mattina e due mesi dopo non ero ancora tornato; due mesi di improvvisazione e sacrifici, di telefonate via via meno drammatiche e più rade per spiegare che sentivo il bisogno di andare lontano e di tornare solo quando mi fossi sentito soddisfatto o quando ne avessi sentito la necessità insostituibile - che non volevo comunque confondere con la nostalgia-. Avevo preso un periodo di aspettativa dal lavoro e il fatto di non avere nessuno che dipendesse dalla mia presenza fece il resto. Mi accusarono di vile fuga, di codarda evasione silenziosa e proditoria da un regime quotidiano che non era poi questa schifezza, di dilapidare incoscientemente i risparmi per un viaggio che non si sapeva quando sarebbe finito. Io dicevo che il mio viaggio si sarebbe concluso al momento giusto e la telefonata finiva lì.
Feci un attimo due conti: ero in giro da oltre sessanta giorni, avevo percorso circa diecimila chilometri, attraversato una decina di stati e mi chiesi se ancora non ero soddisfatto. No, non ero soddisfatto, ma avevo capito: l’indomani avrei puntato ad ovest.
Si torna a casa, mi dissi. L’avventura è bella ma ora basta.
Scrissi sul tablet il messaggio da mandare a Lucrezia quando avessi trovato una connessione, sarebbe stato il primo messaggio dopo l’unica telefonata che le feci quando ero già imprendibile dai rimorsi per averla abbandonata.
Ciao Lucrezia, mi trovo lontano. Sono su un’altura disabitata e ventosa, unica compagnia la mia moto, quella che a te non piace, un tempio diroccato e il nulla. Avevo ragione io: con questo viaggio in moto sono arrivato a toccare con le mani l’impalpabile sommità dei miei pensieri; voi invece avevate torto: un viaggio come questo non è una pazzia. Mi avete bollato come un complessato privo del nerbo necessario per arrivare a fine mese, un capriccioso, uno che fa troppe storie e troppe recriminazioni sulla vita che corre troppo rapida per poter solo immaginare di inseguirla con una motocicletta, non importa quanto grossa e potente; e poi, figurati, la mia non fa manco i centosessanta.
Arrivato fin quassù penso di avere compreso ciò che mi ha spinto ad allontanarmi da tutti: non le delusioni, non la routine, nemmeno il peso delle crescenti responsabilità che un rapporto come il nostro si tira dietro ora che non abbiamo più vent’anni. Volevo solo fare un giro in moto e salvare il mondo, capirlo meglio. Ma ho sbagliato, adesso mi sento solo e sconclusionato.
Non è il senso dell’avventura o l’affrontare viaggi improbabili che salverà il mondo; no, il mondo può essere salvato solo dalla gioia, di cui attualmente sono privo. È per questo che credo che il mio viaggio sia finito, nessun posto è abbastanza lontano se sei in fuga da te stesso, oggi invertirò la rotta e raggomitolerò il filo che mi tiene unito a te. Anche la mia motocicletta è stanca, non escludo di lasciarla all’aeroporto internazionale più vicino e tornare presto, molto presto.
Tuo, Amilcare.
Lo rilessi fino ad impararlo a memoria, senza mai modificarlo. Era la resa a ciò che mi sentivo di essere veramente e la fine di una vita da ragazzaccio che non dava mai spiegazioni a nessuno. Sufficientemente retorico ed enigmatico, mi avrebbe fatto certamente apparire come un eroe al momento del mio rientro in Italia, preservando la mia dignità. Mi sentii meglio, anche se il messaggio non poteva essere inviato per mancanza di segnale. Avevo comunque maturato quella sensibilità che mi fece godere di ogni istante degli ultimi due mesi e, contemporaneamente, sentire l’importanza di Lucrezia e della mia vita di sempre della quale ero un evaso, un galeotto della normalità nella quale volevo sinceramente rientrare prima possibile ora che mi ero accorto che il mondo era troppo piccolo per sfuggire alle mie inadeguatezze e troppo grande per essere visto tutto in sella alla mia motocicletta.
Non ebbi il tempo di fare altre riflessioni pedanti, improvvisamente un concerto di ticchettii metallici prese il posto del rumore sordo e frusciante del motore e dello scarico. Un manipolo di ragazzi armati e aggressivi in divisa kaki mi si era avvicinato di sorpresa, coperti dal rumore della mia motocicletta. Erano giovani soldati e parlavano nella loro incomprensibile lingua, il più cresciuto di loro prese la mia moto e la spinse ridendo giù dal dirupo poi prese il mio zaino e lo frugò, cercando non so cosa, forse droga, forse denaro, non lo so. A spintoni mi fecero salire su un camion, ammanettandomi. Ero terrorizzato, chiedevo in inglese ai soldati perché mi avessero arrestato ma nessuno rispondeva. Arrivati qui, mi fecero un interrogatorio del quale non capii nulla se non la parola “bike” pronunciata più volte da quello che sembrava un generale. Poi, saranno trascorsi non più di trenta minuti dal momento del mio arresto, mi misero in questa cella, ad attendere: “wait”, eppure sono sempre stato certo che prima o poi un’ambasciata, un faccendiere, i servizi segreti, insomma qualcuno come lei sarebbe venuto fuori a tirarmi fuori da questa situazione assurda. Io non ho fatto niente, ho solo fatto un giro in moto. Questi mi hanno pure buttato giù la moto dal dirupo, non ho più nulla. Non sono mai riuscito a fare una telefonata o a contattare qualcuno, qui si viene trattati come animali.
Ora è arrivato lei, signor Console, in tutta onestà con un certo ritardo sui tempi che avevo sperato, ma apprezzo comunque, e mi chiede di raccontarle tutta la mia storia. Sono io, invece, a farle una domanda: come mai ci avete messo cinque anni a trovarmi? No, aspetti; ci ho ripensato, lasci stare. Non lo voglio sapere, sono soltanto felice di poter uscire di qui con le mie gambe. Andiamo.
Amilcare salutò a cenni i suoi compagni di cella e, scortato dal console e da un traduttore, fu portato fuori dalla prigione. Prima di uscire, gli fu restituito lo zaino, contro ogni previsione ancora integro. Per lui fu il primo ritorno a casa. Quello zaino era stato la sua àncora e la sua dimora, c’era pure il tablet.
Non aveva soldi, il console con un gesto di disprezzo malcelato gli allungò cento dollari, “a titolo personale”, senza curarsi di nascondere il compatimento verso un omaccione di trentacinque anni che voleva fare l’esploratore solitario, l’asceta, il cercatore di avventura, e si era ritrovato ad essere inseguito dall’esercito per avere varcato il confine tra due stati in guerra senza manco accorgersene. Gli era andata dritta che non lo avevano fucilato sul posto. Ma era stato ragazzo anche lui, e un po’ invidiava chi aveva abbandonato la vita regolare e comoda per buttarsi a capofitto nell’ignoto del viaggio in solitaria. Del resto, lui stesso era diventato console perché voleva girare il mondo. Si tenne per sé che la vera ragione per la quale lo avevano trovato e fatto liberare era uno scambio di favori tra paesi: quello che lo teneva prigioniero reclamava alcuni attivisti politici arrestati in Italia e mai estradati e il nuovo governo italiano ottenne in cambio il rilascio di tutti i propri cittadini detenuti ad ogni titolo nelle loro prigioni, comunicando ai media la cosa e facendosene un vanto. Tra tanti nomi conosciuti, era inaspettatamente spuntato lui: Amilcare Trombetta, di Vigevano, agente immobiliare. La cui scomparsa era stata denunciata distrattamente da qualcuno, anni fa. Un uomo, un amico. Non un parente. Strano, nessun altro aveva mai chiesto di lui. Solo questo signore napoletano che non mollava l’osso, da cinque anni.
Intascati i cento dollari, Amilcare salutò il console ma rifiutandosi di prendere subito l’aereo militare per l’Italia; i soldi glieli avrebbe ridati con un bonifico, erano un prestito. Giurò, senza crederci, che nel pomeriggio sarebbe andato all’ambasciata per imbarcarsi sul volo che lo avrebbe portato in Italia.
Dentro abiti nuovi e puliti, andò in un ristorante ed ordinò un piatto di riso al curry, prese l’alimentatore e mise in carica il tablet. Attese cinque minuti, giusto il tempo di divorare il primo piatto e di ordinarne un secondo, assieme ad una birra. Accese il tablet e lo connesse al wi-fi. Trovò il messaggio da inviare a Lucrezia ancora in memoria e lo rilesse, trovandolo esattamente come se lo ricordava. Non esitò e decise di ricominciare da dove aveva lasciato: lo inviò, con un lievissimo ritardo di appena cinque anni. “Destinatario sconosciuto”, e vabbè. Ci aveva provato. Gliene arrivò un altro, invece. Temeva di sapere da chi provenisse. Era Giuseppe, Peppone, il guzzista conosciuto al raduno sulla costiera amalfitana col quale aveva condiviso la camera d’albergo prenotata dal motoclub. Lesse il lungo messaggio, stette un po’ a riflettere e rispose brevemente: “Grazie Peppone per il tuo attaccamento, ho capito che dietro la mia liberazione ci sei anche e soprattutto tu; ma questo non cambia le cose: non è che per una volta che uno prova un tipo di moto diversa da quella di sempre si deve poi pensare che si è cambiato genere. Capisci ammè! Le prove sono fatte per questo, per toccare con mano, per dare un giudizio di persona di una cosa che non si conosceva prima. Teniamo i sentimenti fuori, ok? Avremmo potuto essere amici, ma non così amici. E’ stato bello: la costiera amalfitana, l’aria estiva, Posillipo… ma ora vedi di dimenticarti, pure tu, di me. Amilcare.“
Ecchecavolo, per una volta che aveva ceduto la cosa era trapelata perché Peppone faceva l’isterica! Quello lo perseguitava, lo aveva costretto prima a nascondersi per la vergogna e poi a fuggire lontano. Lontano, sì. Ma sempre nel mondo.
Però era l’unica persona che lo aveva cercato. Però… però un cazzo, si disse. Io sono Amilcare Trombetta, uomo e motociclista fino al midollo e ora… e ora…
Uscì fuori, si mise lo zaino in spalla, rubò il primo Honda Cub parcheggiato fuori dal ristorante e scappò via; fuga o galera va bene tutto, fuorché il mondo.