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Tralascio i convenevoli e vado subito al dunque: quella che sto per raccontarti è una storia che potrà apparirti inverosimile o assurda, vorrei che tu la giudicassi con calma e senza preconcetti dato che io non ho la lucidità necessaria per razionalizzarla del tutto.
Ero sul ciglio della strada, la sera prima di questo Natale che ha lasciato sul campo l’alterigia di molti e rinviato ogni progetto di pazzie alla notte del 31, ovvero a stanotte. Stavo per fare la mia solita cazzata. Avevo atteso il buio e trovato una breve strada dritta, sgombra e non illuminata, lunga abbastanza da poterci tirare la seconda e terza marcia dopo avere disabilitato tutti i controlli elettronici della motocicletta e – soprattutto - avere spento i fari. Ho fatto installare un interruttore apposta, dato che oramai da molti anni in tutte le motociclette le luci si accendono da sole. Avremmo dovuto sospettarlo: quello era solo l’inizio della perdita del totale controllo della moto, le luci automatiche. Tra non molto avremo le moto che frenano da sole e tu non le puoi impennare e forse i miei figli vedranno le leggi sui pensieri che non puoi avere e sulle voglie che non sono concesse, tutto in nome della sicurezza e del vivere civile. Lo so che parlo come un vecchio, come un nostalgico. Perdonami, ma forse quello che io vedo è che più sicure e perfette diventano le motociclette, meno ragazzi ne vengono attratti magari per quel mito del proibito che viene a mancare: che vuoi farci, sarà la mezza età.
Spenti i fari mi preparavo a gustarmi un breve volo immerso nel buio attraverso questo corto rettilineo di statale, nessuna automobile né dietro né avanti, ero certo che nessuno mi osservasse. Diedi pieno gas alla sola luce della strumentazione riflessa sul plexiglass e sulla visiera del casco e il muretto iniziò a scivolare rapido ai miei lati, sentivo le pupille dilatate mentre avevo il cuore gonfio di stupidità malsana ed eccitata. Il tachimetro contò a tre cifre, io contavo mentalmente i sei secondi oltre i quali avrei dovuto riaccendere le luci, limite ultimo che mi ero dato per non correre il rischio terribile di trovarmi ad un incrocio a velocità folle e a fari spenti. Avevo controllato e valutato bene, prima di spegnere le luci: sei secondi, non uno di più, erano il massimo che potevo permettermi a tutto gas e al buio della sera del 24 dicembre. Uno, due: la ruota anteriore appena sollevata, lo sentivo da come era leggero lo sterzo; tre: l’urlo del motore copriva il mio respiro; quattro: un accendino a bordo strada attizzava la brace di una sigaretta e nella sua fioca luce mi parve di vedere una mano sbucare da un braccio in una tuta di pelle salutarmi ma ero troppo veloce e la passai in un attimo. Rallentai istantaneamente e accesi i fari, provando una vergogna puerile come un ragazzino sorpreso dalla mamma a leggere un giornaletto con le donnine nude e pensai che forse quella persona era un motociclista che aveva bisogno di aiuto e tornai indietro pensando che perlomeno rischiavo di farmi dare del pirla e se magari era un poliziotto o uno della forestale avrei preso pure una bella multa: il rischio di lasciare un motociclista come me al buio e da solo, ma anche la curiosità di capire se la mia era stata un’allucinazione o no, mi spinsero comunque a frenare e tornare indietro senza esitazioni.
Non era un’allucinazione, il motociclista in tuta di pelle era lì, seduto sul muretto a fumare nel buio pressoché totale della statale priva di lampioni a rischiararla. Accostai, spensi la moto, mi sfilai il casco, i guanti, il sottogola e sentii subito il freddo pungermi la schiena. Lui no, lui era in tuta e basta, guanti e casco erano accanto a lui ma non riuscivo a vedere nessuna motocicletta.
Ricordo per filo e per segno la conversazione:
Vai forte! – esordì.
Tutto bene? hai bisogno di qualcosa? – risposi.
Io? No, perché?
No, niente… Certo che è strano trovare uno seduto sul muretto a quest’ora di sera su una statale buia e magari credevo volessi un passaggio, un aiuto…
Credo che sia molto più strano vedere uno che tira il collo al motore per strada, la sera del 24, in una statale buia e a fari spenti…
Vabbè, volevo solo provare il brivido della velocità pura, senza riferimenti…
Capisco. No, dai, capisco sul serio, anche a me piace la velocità e il rischio. La mia non è una critica, è che noi motociclisti siamo tipi strani, nevvero?
Beh… un po’. Come tutti quelli che hanno una passione.
Vieni, ti faccio vedere una cosa. Sono convinto che ti interessa.
Dove, scusa? Qui al buio? – replicai sospettoso, il tipo poteva essere o uno squilibrato o un malintenzionato.
Sì, dai facciamo due passi così mi scaldo un po’. A stare fermi c’è sempre freddo.
Per quanto cercassi di agire razionalmente, mi feci convincere dal suo sguardo: uno sguardo da ragazzino a dispetto delle prime rughe che convivevano nello stesso volto con un sorriso da bambino furbo e per questo troppo intelligente per essere uno che frega la gente. Mi fidai e, stordito dalla strana circostanza che stavo vivendo, non gli chiesi nemmeno dove fosse la sua moto. Lo seguii, o perlomeno seguii i suoi passi perché la sera era troppo scura e lo pedinavo a distanza ravvicinata ma praticamente senza contatto visivo. Buttò la sigaretta e cacciò al suo indirizzo una parolaccia in ligure. Andavamo nella stessa direzione nella quale stavo correndo con la motocicletta a passi brevi ed ostinati e dopo un minuto si fermò e mi chiese di guardarmi intorno: io non vedevo nulla e tacqui. Guarda meglio, Andrea. Ancora mi chiedo se lo disse veramente o se lo sentii soltanto dentro la mia testa. Guarda meglio. Il muro di nero era totale, che cazzo dovevo guardare? Iniziavo ad innervosirmi, non c’era assolutamente nulla, nemmeno luci in lontananza ragione per cui affidai la probabilità di vedere qualcosa alle poche stelle e alla luna; poi con un colpo di genio mi venne in mente di prendere il cellulare e di illuminare la scena. La luce del solo display mi mostrò la desolazione di un incrocio deserto con me in mezzo e privò di ogni poesia ciò che stavo vivendo: chissà cosa mi aspettavo, non avrei saputo dire se in quel momento mi sentivo più pirla ad essere stato visto correre a fari spenti o ad aver seguito uno sconosciuto al buio. Facciamo fifty-fifty.
Poco dopo il display del cellulare si spense, com’è normale che faccia dopo qualche secondo di inattività, e io ripiombai nel nero così fitto che non riuscivo manco a vedere le mie mani; era quasi come avere perso la vista: complici le colline e gli alti alberi ai lati della carreggiata nessuna luce si intrometteva a spezzare il buio. Le pupille erano sempre più dilatate in cerca di ogni minima sorgente luminosa e in questo stato di vuoto visivo, il mio cervello iniziò a dare corpo alle ombre, proiettando qualcosa nel buio. Iniziò dai lineamenti di Elena, mia figlia, che giocava nel piccolo giardino di fronte casa, si aggiunse la matronale figura di sua madre, bella come al solito e un po’ abbondante nelle forme che mi rivolse pure uno sguardo dolce, il suo solito sguardo; più mi impegnavo a vedere qualcosa, più particolari sbocciavano dall’oscurità. Iniziai persino a vedere i colori, a sentire gli odori di casa e quando apparve il volto del mio amico Emmanuel avvertii per un istante il puzzo del suo enduro a due tempi che mi piacerebbe tanto provare, prima o poi.
Lo sconosciuto motociclista aveva ragione, quello che stavo vedendo mi interessava, chissà quale incredibile processo mentale viene eccitato da un’oscurità cosi densa, chissà come e perché il nostro cervello proietta immagini e sensazioni nel buio quando l’oscurità è così uniforme e profonda! Mi vennero in mente i racconti degli astronauti che asserivano di avere visto cose strane al di fuori delle stazioni spaziali, ora davo loro un certo credito. La nostra mente, come avevo sempre pensato, è in grado di fare cose straordinarie, in moto come nello spazio! Scrutai ancora il buio in cerca di qualcosa ancora ma la voce del mio cicerone di questa esperienza quasi metafisica mi avvertì: adesso spostati e torniamo indietro. Ubbidii solerte e non appena mi tolsi dal centro dell’incrocio sentii il rumore di un auto, poi ne vidi i fari sbucare da dietro la collina, due piccoli punti luminosi come luci dell’albero di Natale che ingiallivano il paesaggio. Dopo circa mezzo minuto l’auto passò veloce all’incrocio senza manco sfiorarci con le sciabole luminose proiettate dai suoi fari, ma nel rapidissimo istante in cui illuminò la strada vidi per terra, ai margini della corsia opposta a me, una moto: la mia. Era a pezzi, deformata, sfasciata, brandelli metallici esplosi per un ampio raggio di asfalto; serrai le mandibole e inghiottii duro, nel tentativo di tenere a freno l’ansia e mostrare calma e controllo al tipo in tuta. Accesi il display del cellulare e cercai di ritrovare il rottame con la vista affaticata e a chiazze, ma sia perché il freddo mi aveva ghiacciato le gambe, sia perché un brivido freddo di paura mi bloccava la schiena, non feci un passo, non attraversai la strada e cercai una spiegazione razionale.
Che puntualmente brillò per la sua assenza; il motociclista in tuta sparì, io tentai di tornare al punto dove lo avevo incontrato e lo cercai anche gridando, ma nulla: scomparso. Era il 24 sera, ormai, ad un passo dal cenone e dagli auguri di qualcosa di sereno ed io mi sentivo stranamente calmo e felice, quasi contento nonostante la mia motocicletta fosse un rottame. Però, lasciarmi qui da solo, andarsene così… che maleducato. Decisi di telefonare a mio fratello Michele, di farmi venire a prendere e portare a casa da lui.
A tutti i miei parenti, seduti a tavola e in ansia per me, raccontai di avere perso il controllo della moto e di averla lasciata andare non appena mi avuta la certezza di stare per cadere; una vampa di calore mi saliva lungo il petto e mentre raccontavo sentivo nella testa la voce del tipo in tuta che mi diceva hai fatto bene, lasciala andare.
Forse devo dei ringraziamenti a qualcuno, se è così non saranno mai abbastanza sentiti; credo che in qualche modo, il 24 sera ho ricevuto un dono di Natale: la possibilità di mettere la retromarcia, noi che in motocicletta andiamo sempre dritti incontro al nostro destino, saldamente legati al manubrio al quale appendiamo pure le vite dei nostri cari. Per una volta, credo l’unica, in moto il destino ha fatto retromarcia, qualcuno ha inserito il settimo rapporto nel cambio della mia moto e io sono qui a chiederti se secondo te il mio racconto è solo frutto dello shock a seguito dell’incidente, o se per caso quella che ho vissuto è stata un’esperienza irripetibile. Ho ripreso la moto, ora è in garage: la riparerò.
Grazie a te per avere letto questa mail e, se mi sente, Grazie al motociclista in tuta. Smetti di fumare, fa male.
Buon Capodanno,
Andrea.