I racconti di Moto.it: "Stacca"

I racconti di Moto.it: "Stacca"
Un vero tester stacca tardi, il più tardi possibile. Non bado ai cartelli che segnalano quanto manca alla curva, il mio riferimento sono le emozioni...
2 dicembre 2011

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Un vero tester stacca tardi, il più tardi possibile. Non bado ai cartelli che segnalano quanto manca alla curva, il mio riferimento sono le emozioni: un po’ come Kevin Schwantz che staccava solo quando la paura prendeva la forma di visioni celestiali. Io non ho paura, freno quando me lo dice il cuore. Quando è il momento: per questo nell’ambiente dei tester mi chiamano “Stacca”.

La pista corre veloce, non ho il tempo di riflettere e mi affido all’istinto: pedale, leva, trasferimento di carico e “guardo oltre”, il ginocchio vibra; corda, uscita, gas, rettilineo a naso in giù spinto da 200 cavalli; e nel rettifilo di un chilometro e cento che ho di fronte, ho pure il tempo per lasciarmi andare ai pensieri.
Concordo con chi mi vuole male, la tuta mi tira un po’ sulla pancia e la fluidità nei cambi di direzione non è più quella di soli 5 anni fa, ma vado forte lo stesso. Del resto, non so fare altro. Da quarant’anni collaudo motociclette sportive italiane… vi ricordate la Buttazzi 750 due cilindri a V del 1971? No? Vabbè, siete troppo giovani; il prototipo andava come il vento ma al momento di voltare non ragionava più: orbene, dopo che l’ebbi testata per una settimana ed elargito i miei consigli, modificarono il telaio e la versione “pronto gara” vinse il campionato italiano veterane bicilindriche del ’95. Evidentemente per essere apprezzata doveva diventare d’epoca. Ma il mio trionfo è stata la Motospiezo 250 s.p. del 1978, famosissima; la conoscono tutti, dai. Tu no? Sicuro? Sicuro-sicuro-sicuro? Era quella col serbatoio color “ti-prego-fa–che-sia-uno-scherzo”, scelto dal commendatore Spiezo in persona. Prima della mia consulenza era un incrocio tra un tosaerba e un cucciolo di mammut: del primo aveva preso il rumore, del secondo il simpatico trottare un po’ claudicante tipico dei simpatici estinti. Una sera mi spunta a casa il commendatore: mi implora di mettere una pezza nel disastro che avevano combinato i suoi collaudatori; mia moglie Gina, buonanima, riconoscendolo lo invita ad accomodarsi a tavola con noi, nascondendo l’argenteria; passiamo la sera a parlare della incombente minaccia delle motociclette cecoslovacche sul mercato italiano: “vedrà, questi comunisti hanno in serbo un’arma segreta e ci fregano tutti!”, predisse il commendatore. Poi usci la Jawa 350 due tempi, brutta come il peccato, e tirammo tutti un sospiro; lo tirò anche la Motospiezo, l’ultimo, però. Comunque, dopo la mia terapia la 250 s.p. si guidava come una libellula e sarebbe rimasta insuperata tra i capolavori dell’industria italiana, se solo fosse andata in produzione… va bene, devo riconoscerlo: ho il triste primato di aver sempre sviluppato moto… sfortunate? Derelitte? Forse anche un po’ ignobili? Difficili. Sì, difficili.
Questi lunghi rettilinei mi annoiano. Il motore è fisso in zona rossa e si annoia pure lui, malinconico, mentre la mente bighellona per vicoli bui del “come sono arrivato fino a qui”.

Nell’ambiente dei collaudatori di motociclette dei primi anni ’80, il mio nome era sulla bocca di tutti e ne avevo capito benissimo il perché: quando c’era una moto in predicato di diventare un flop, nessuno voleva esserne il collaudatore temendo di infangare il proprio nome e compromettere la carriera; a quel punto le Case (quelle più scalcagnate, le altre flop non ne facevano mica) chiamavano me. Ero bravo, chiedevo poco e facevo il tester con dignità da becchino mantenendoci la famiglia. Il mio nome non apparve mai nelle riviste di settore di quegli anni: se fossi diventato un personaggio noto, i lettori mano a mano avrebbero ricostruito la mia carriera capendo il rapporto biunivoco tra le moto ignobili e “Stacca” e nessuna altra Casa mi avrebbe chiamato per lavorare, temendo di apporre un marchio di ignominia alla propria creatura, ancor prima della nascita, per il solo fatto che fossi stato io a testarla. Nessuno mi cercò mai per presenziare ad una trasmissione televisiva o radiofonica e mi fu sempre proibito di gareggiare per timore di una cattiva pubblicità; insomma, in quegli anni ricevevo regolarmente il trattamento di una peripatetica a cui tutti fanno ricorso quando si trovano in cattive acque, squattrinati e bisognosi di un servizio sporco ma efficiente.
350 metri, bisogna che mi sbrighi.

Con l’acuirsi del disprezzo che subivo nel mio ambiente di lavoro, i rapporti con mia moglie Gina diventarono sempre meno idilliaci, sempre più carichi della delusione che quel bel ragazzotto degli anni ’60 le aveva procurato non riuscendo, anteponendo la passione alle necessità e cercando di farne un mestiere, nemmeno a concederle il lusso di una casa in montagna, nonostante la laurea in medicina.
In verità, lei era delusa non per la mia attività di collaudatore free-lance ma solo dalla mia acquiescenza al trattamento da cocotte, per l’assenza di un rigurgito di dignità nell’accettare gli incarichi più infamanti e lesivi della mia rispettabilità professionale e di uomo, anche se quest’ultimo corollario lo compresi solo dopo la sua morte. Il fatto è che per me era sempre stato un gioco, venivo pagato per giocare con le moto e lo avrei fatto anche gratis; non importava se la mia dignità non si oppose mai con uno stentoreo “E’ TROPPO!”, se me lo avessero chiesto mi sarei fatto mettere pure su una minimoto diesel. Gina lo aveva sempre capito e mi sosteneva come poteva, con le sue carezze e la sua cucina povera ma saporita, col tempo che mi lasciava libero per bighellonare ai mercatini e col tacere le speranze di una vita diversa, le bastavo.

La scarsa stima di me nutrita da colleghi e Case fu la causa di un diffuso ostracismo e nessuno ci invitò più a cena, non riuscii più a imbucarmi in qualche modo alle presentazioni dei nuovi modelli e divenni in breve tempo, nei primi anni ’80, come quelle persone che sembrano incollate posticce su un album di fotografie: ti chiedi sempre “che ci fa questo, qui?”.

Un giorno ricevetti una lettera da un signore cileno, capitano di industria e noto viveur dell’Italia da bere di quegli anni. Recava una proposta molto allettante e all’apparenza seria per una serie di collaudi di un’intera gamma di motociclette da lanciare sul mercato mondiale col famoso marchio Moto Gi da lui appena rilevato da una fallimentare gestione statale; proponeva compensi stratosferici e rapporto a tempo indeterminato; era il settembre del 1982 e un miracolo c’era già stato, non credevo se ne potessero verificare due in un anno.

Era il cartello dei 250 metri? Cavolo, mi rimane poco tempo per dirvi tutto.
Accettai subito, mandando il contratto firmato via posta e incontrai il ricco magnate cileno presso lo stabilimento Moto Gi; questi, fatti i convenevoli, mi porta sul piazzale e mi mostra due moto: una fatta in Giappone, bella, rifinita, universalmente nota per essere fluida come un fiume impetuoso che segue senza tracimare il suo corso, l’altra che ne ricorda molto, molto, molto da vicino l’estetica e le soluzioni tecniche: era il suo prototipo da produrre qui in Italia in varie versioni, scandalosamente identico in tutto e per tutto alla moto giapponese; mi fa: “la vede questa?” indicando la sua, “deve andare come quella”, indicando la prima. Se oggi Valentino lo chiamano “il dottore” a me avrebbero dovuto chiamarmi “il Messia”, perché solo un miracolo avrebbe potuto rendere quell’atroce tentativo una vera motocicletta; ma, come dicevo, mi chiamano “Stacca”; non “Messia”.

La moto era inguidabile e il motore semplicemente ridicolo (scoprii in seguito che per ragioni di economia di scala aveva parti in comune con un trattore agricolo prodotto in Cile dallo stesso magnate) ma cercai di non avere preconcetti e mettermi al lavoro con serietà e metodo. Dopo il primo giorno di test, chiesi delle modifiche al telaio, una sella diversa, un motore più affidabile e un panino al crudo. Arrivò solo il panino, ben imbottito. A quel punto, feci presente al cileno che senza le modifiche che chiedevo non potevo fare molto: “ma lei non ha capito niente!”, mi risponde, “lei è qui solo per la fama di capro espiatorio che si tira dietro e con la quale potrò giustificare i risultati scadenti delle mie motociclette! Cosa credeva? Io faccio affari, non motociclette! Il budget dell’operazione si è esaurito con l’acquisto del marchio, ho preso le sovvenzioni statali e ci ho già guadagnato quello che volevo senza vendere mezza moto. Ne produco qualcuna giusto per fare lavorare la fabbrica! Ora si tolga dai piedi.”

200 metri.
Era troppo. Con un gesto di stizza scagliai addosso al parvenu sudamericano le chiavi del prototipo, scheggiandogli un dente. Me ne andai furioso, con me stesso prima di tutto, gridandogli che le moto non perdonano gli errori di chi le fabbrica con passione, figuriamoci le presunzioni di chi pensa di costruirle come fossero trattori! Riempiendo l’aria di contumelie, andai a casa.
Pensavo che Gina fosse quantomeno fiera della mia reazione, invece non disse niente. Pochi giorni dopo mi arrivò la citazione dell’avvocato del cileno con la richiesta dei danni per il dente scheggiato. Ci fu una causa, la persi. Gina mi lasciò poco tempo dopo, credo per paura di gravare sul mio disastratissimo bilancio, lei che aveva bisogno da sempre di costose cure mediche e che avevo conosciuto in ospedale quando facevo tirocinio, decise di scomparire dalla mia vita e di farmi affrontare serenamente le mie difficoltà di disoccupato e di debitore di una somma enorme come risarcimento danni per un dente scheggiato. La sua malattia, comunque, non perdona e pochi mesi dopo morì riempendomi di disperazione, ovviamente acuita dai sensi di colpa e dall’ammirazione per il suo coraggio. Mi chiamò il suo avvocato qualche giorno dopo il funerale per comunicarmi che Gina aveva comunque deciso di lasciarmi tutti i suoi pochi averi, compresa la casa.
Sorprendentemente, forse perché impietositi dalla mia storia personale o forse perché in Italia “Stacca” era stato l’unico a non genuflettersi di fronte al cileno, mi arrivarono attestati di comprensione, quando non di stima, da colleghi e Case motociclistiche e piano piano ricominciai a lavorare e ad andare in moto, riuscendo a pagare il mio debito nei confronti del cileno (scappato in patria dopo essere stato sorpreso a sniffare cocaina con una bellissima donna di nome Ugo); il debito verso Gina, invece, non potrò mai ripianarlo.

150 metri.
Sono passati trent’anni.
Ora guido motociclette prestigiose, partecipo ai press meeting come caposervizio per una testata motociclistica. Come sono cambiati i tempi dalla Buttazzi ad oggi. Non mi sono risposato, vivo da solo e tengo ancora le foto di Gina con me. Vorrei rivederla e raccontarle tutto quello che mi è successo da quando se ne è andata, vorrei ringraziarla per la sua comprensione, il suo altruismo, la fede sincera. Farle capire che è stata la donna cui la mia vita deve molto. Poterle parlare risolverebbe la mia vita, fino ad oggi monca.

100 metri.
Non lo so.

50 metri.
Per frenare è tardi.


A. Privitera

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