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Il motivo per il quale compiamo le azioni che più ci fanno stare bene, come andare in motocicletta, spesso non è chiaro nemmeno a noi. A parte il sesso e la preghiera, tutto il resto o è un vizio o ha bisogno di passione trascinante per essere realizzato.
A me, e sospetto di essere in buona compagnia, fa bene anzi benissimo andare a zonzo con la moto in perfetto ordine e per questo ero andato nell’officina di Salvo con la scusa di un caffè e il subdolo intento di riproporgli la mia fisima di quel maledetto rumore di distribuzione che martella il mio tre cilindri; Salvo è un figlio d’arte, quella di capire subito cosa vuoi veramente, e invece di esaminare la mia motocicletta mi fa largo tra i suoi attrezzi e le moto, esce una sedia e mi dice di mettermi comodo comodo, che ha una storia da raccontarmi: una di quelle che possono nascere solo unendo i puntini tra due ruote, un motore, un manubrio e tanta passione per i viaggi e le motociclette.
Salvo da oltre quindici anni va nel deserto Tunisino con le moto, ma anche con le auto, le biciclette e spero tanto che in futuro non gli venga in mente di farlo a piedi, mi hanno detto che non sarebbe una passeggiata di salute; per placare il suo “mal d’Africa” – quella cosa che se poi vai cercare cos’è veramente scopri che ognuna delle persone che lo sente sembra dargli un significato diverso -, organizza più volte all’anno viaggi in motocicletta, abbandonando per una decina di giorni la propria officina; cavolo, quindici anni di tour in Tunisia: mi chiedo se non si sia stancato di vedere sempre gli stessi posti, annusare lo stesso territorio, compiere lo stesso tragitto in mare, soffrire il caldo di giorno, la sabbia nelle scarpe, la gente del luogo che oramai ha imparato a conoscere lui e la truppa di scalmanati che porta con sé raccolti grazie all’ organizzazione “Quinta Piena” gestita assieme ad un altro veterano dei viaggi nel deserto, Giovanbattista. Invece Salvo non è affatto stufo, e credo non lo sarà nemmeno in futuro: il perchè sta nelle motivazioni che ti portano a fare le cose.
Dentro di sé Salvo avrebbe tutto sommato alcune buone ragioni per detestare le motociclette. Da ragazzo la sua massima aspirazione era studiare, ma già durante il periodo scolastico dedica il proprio tempo libero all’officina di riparazione motociclette del padre e deve rinunciare in qualche modo a vivere la propria adolescenza per dare una mano; il diploma di perito elettrotecnico lo lancia verso la facoltà di ingegneria che abbandona dopo due anni per diventare quel bravo tecnico e meccanico di motociclette che in molti hanno imparato ad apprezzare, rilevando l’officina che il padre gli affida.
Lui non lo dice ma forse il sentimento di avere immolato il sogno di una laurea tra una biella da sostituire e sospensioni da regolare in officina, affiora e un po’, soltanto un po’, gli pesa. Ma sarebbe il meno. Il peggio arriva qualche anno dopo: una mattina saluta il fratello minore e gli augura buona scuola ma sarà l’ultimo saluto perché pochi minuti dopo Luca e la sua motocicletta vengono agganciati e trascinati da un camion, Luca muore sul colpo nonostante il casco e la guida prudente. Per Salvo, un colpo inatteso e durissimo; perdere così un fratello di diciassette anni potrebbe condurre alla disperazione o alla perdita del senno, quantomeno alla decisione di non voler più nemmeno vedere una motocicletta, invece Salvo segue un altro percorso: trovare qualcosa, fare qualcosa, diventare qualcosa che riesca a dargli la sensazione di ritrovarsi col fratello e farsi raccontare com’è andata veramente, cosa aveva intenzione di fare Luca in quel giorno di scuola di sedici anni fa e placare il rimorso di non avere sfruttato gli ultimi momenti che si abbatte su tutte le persone toccate da una perdita inaspettata e dilaniante di una persona cara.
Salvo inizia da lì in poi ad andare con la sua enduro nel deserto e tutto cambia. Diventa un habituè del deserto Tunisino, della sua gente, dei berberi delle montagne e delle grotte, dei nomadi e dei beduini; impara a riconoscere, navigando sulla sabbia, le piste e le oasi e inizia ovviamente a trovare degli amici anche lì, dato che la cadenza dei suoi viaggi in compagnia di numerosi appassionati come lui diventa almeno trimestrale e se passi nello stesso posto con la moto ogni due-tre mesi è inevitabile fare simpatia e stringere legami, soprattutto per un tipo solare e sorridente come Salvo.
Durante il tempo di questo lungo caffè ormai freddo, Salvo mi onora della confidenza che seduto su una duna da solo, mentre magari tutto il resto della compagnia è riunito attorno alle motociclette, trova il momento per sentire la presenza di Luca, in uno stato di serenità che nutre una dipendenza irresolubile: tornare appena possibile nel deserto diventa per Salvo un’esigenza appassionante che oramai continua da sedici anni.
Ma la moto è carica di adrenalina e non puoi stare seduto sulle dune mentre c’è ancora strada da fare, qualcosa da vivere: quindi gas aperto verso la prossima oasi, attraverso le prossime dune, anche sotto il 33°parallelo e senza dimenticare che la Tunisia è un paese ancora in via di sviluppo; così nasce l’idea di organizzare ogni fine anno con “Quinta Piena” una spedizione per portare nel profondo sud dei villaggi tunisini, dove la gente non esiste per nessuna istituzione e le persone sono abbandonate fin dalla nascita per la mancanza di un’anagrafe, beni come vestiti, giocattoli, cibo e coperte, ricevendo come impagabile ringraziamento il sorriso di famiglie che pure a dicembre vanno scalze, e non per scelta. Un altro modo di vivere l’Africa sottotraccia e di dare un’integrità al proprio essere motociclisti e non dei rapaci turisti dei territori che si attraversano, tanto più che queste spedizioni – chiamiamole solidali – vengono compiute con auto da fuoristrada per ovvie esigenze di trasporto.
Sembrerebbe finita qui. Oddio, ci potrebbe pure stare.
Ma certe volte il destino fa lunghi giri per farti capire perché ti imbarchi in certe imprese. Salvo e una ventina di motociclisti, durante uno degli ultimi tour motociclistici del sud della Tunisia organizzati da “Quinta Piena”, incontrano una famiglia di nomadi, una delle tante che solcano il deserto sui loro asini. Accanto il laghetto dell’oasi dove questa famiglia ha piantato una tenda, si vede un involto e dentro questo ammasso di cenci c’è un bambino che non sta bene. Ha gli occhi gialli ed è immobile, la sua rassegnata famiglia non riesce a dare un nome alla malattia, ma si vede che il piccolo è malato. Da una delle moto scende William che fa il medico, lo visita sommariamente e capisce che questa febbre alta e quest’ittero significano il bisogno assoluto di un dottore e di un ospedale se non si vuole che il piccolo, dall’apparente età cinque anni, corra il rischio di morire nel deserto. L’ospedale più vicino è a 200 chilometri che fatti in automobile sono due giorni, ma coperti a dorso di asino sono un tempo sufficiente a fare morire il bambino. Salvo e tutta la compagnia di “Quinta piena” decidono ci caricare l’intera famiglia su una delle loro automobili di supporto e stravolgere i loro programmi per portare prima possibile il bambino in ospedale. Sono duecento chilometri di mal di pancia e di vomito per chi non aveva mai percorso nemmeno cento metri in automobile, due giorni di speranza di una famiglia che Salvo, Giovanbattista, William e tutti gli altri non rivedranno mai più. I nomadi non hanno indirizzo, telefono, recapito, ma hanno denti sporchi che brillano nei loro sorrisi increduli che una banda di motociclisti in viaggio turistico possa avere fatto così tanto per loro.
Pensateci: Salvo, la passione per le moto fin da piccolo, il diploma di elettrotecnico, l’officina di papà, la scomparsa di Luca, il deserto tunisino in motocicletta, le dune, Quinta Piena, il mal d’Africa, William che fa il medico e che era lì in sella ad un’enduro. Quante condizioni sono state necessarie per salvare quel bimbo sconosciuto, quante casualità messe in fila da almeno trent’anni per ottenere questo risultato.
Se ci pensi un attimo scopri che le moto in fondo sono solo una scusa, una scusa divertente e appassionante, una scusa veloce per portarti su una duna di sabbia e chiedere al mondo di essere, almeno questa volta, meno feroce.