I racconti di Moto.it: "Usato garantito"

I racconti di Moto.it: "Usato garantito"
Vado spesso a trovare mio nonno Alfredo, non so se per rifarmi una verginità in tema di mancato affetto o per sincero attaccamento al papà di mia madre. Lui è un signore di novanta anni passati...
2 novembre 2011

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Vado spesso a trovare mio nonno Alfredo, non so se per rifarmi una verginità in tema di mancato affetto o per sincero attaccamento al papà di mia madre. Lui è un signore di novanta anni passati e io non raggiungo metà della sua maturità e il quarto della sua esperienza di vita.

Gli ospizi di oggi sono fenomenali. Li chiamano “ricettività a tempo”, così come normati dalla legge sulla qualità della vita varata nel 2043, per il Paese una svolta epocale. Come tutti sanno ma pochi ammettono, gli anziani erano tanti, troppi. Il sistema non li reggeva più: oneri previdenziali ingestibili, ospedali peggio di un rave, traffico in tilt, code interminabili alle casse dei supermercati, attese di settimane dagli odontoiatri, il tono della voce di tutti si era alzato, il carbonio e il titanio massivamente usati per le protesi e non se ne trovava più per i portatarga rialzati! Ma che vita è, si sono chiesti tutti? Che noi dobbiamo fare una vita di inferno per questi qui che tirano uno starnuto e devi andargli a raccogliere la dentiera? Che accendi un bicilindrico 1200 e alla prima apertura di gas, oltre agli allarmi delle auto, ne senti uno che stramazza a terra?

Meno male che il nostro è un Paese civile e hanno fatto la legge sulla qualità della vita, la nostra: gli anziani tutti in ospizio come detenuti in attesa di giudizio; nella fattispecie concreta, quello divino.
Apro di sottecchi una bottiglia di Chianti e gliene verso un bicchiere rendendomi conto che nessuno degli infermieri, pur vedendo chiaramente tutta la scena, si allarma: dal 2043 in poi certe cose sono permesse e, anzi, incoraggiate pur di alleggerire rapidamente il sistema da costi e zavorre.
- sei in moto, Ugo?
- Già, la vuoi vedere?
- No, sono stanco. Rimaniamo qui. – la mano gli trema mentre porta il bicchiere alle labbra rugose. Tutto d’un fiato.
Pausa di degustazione, io mi rigiro le chiavi della moto nelle mani.
- a me piaceva andare in moto…- dice, col vino che fa la tempesta nel bicchiere da come trema la mano; è il secondo.
- lo so.
- ma dimmi una cosa…- ri-bicchiere di vino, cavolo quanto beve.
- cosa?
- …c’è ancora la mia moto in garage da tua mamma? - Lo sapevo, è il momento della verità. Guardo in basso, poi in alto, ho le vertigini da sindrome da capro espiatorio.
- No, nonno. Mamma l’ha venduta tre anni fa per la mastoplastica di Sara, gliel’ha regalata per la laurea. – ecco, l’ho detto; ora basta attendere o che schiatti o che si metta a piangere.
- Ahh, bella moto!…quant’è? 750? – seeeee...buonanotte!
- No, intendevo dire che ha aumentato…
- Ma non è ancora illegale maggiorare i motori?…bei tempi quando bastava un Akrakovich…
- Ora c’è il carcere, nonno. No, volevo dirti che Sara con i soldi della tua moto ha ingrandito…il décolleté…
- Quale, quello in piazza Eroi d’Ungheria? Ma se era un appartamento abusivo!? Ma almeno prima ha levato tutta quella umidità dal soffitto??
- Ma quale appartamento, nonno! Mamma ha regalato a Sara l’intervento per avere un davanti più…robusto – sento le mie unghie fare sgriiich sui vetri…
- e certo! se una moto davanti non c’è…hai voglia a truccare il motore.
Va bene vecchio bacucco, l’hai voluto:
- Le tette, nonno! Con i soldi della tua moto mia sorella si è fatta una quinta! Ora per il lavoro le serve solo il master! – sbotto, e la cosa fa rabbia pure a me: vendere una moto del ’99, a carburatori! Pazzesco!
- Ah. Peccato. Ma…non poteva mandare curriculum come abbiamo fatto tutti?

E a quel punto che fai? Gli spieghi che i tempi sono diversi e che oggi se sei donna e non sei in un certo modo non ti prendono neppure allo stage e che se invece sei uomo ti trovi coniugato al precariato istituzionale finché morte non vi separi? No, lasci perdere.
-…è che le andava di fare bella figura…
- sì, certo. – benedetta maturità degli ultra ottuagenari.
Mi sento come il boia che ha giustiziato un innocente, pur avvertendo il sollievo di aver finalmente vuotato il sacco sulla amatissima moto di mio nonno. In fondo glielo dovevo, o forse l’ho fatto solo per alleviarmi la coscienza. Vabbè, non lo so. È importante?

Il mio colloquio è finito, gli infermieri portano via nonno Alfredo spingendo la carrozzina.
Esco fuori mezzo ubriaco e mi accorgo di aver dimenticato le chiavi della moto accanto al Chianti, sul tavolo; torno di corsa all’ospizio per paura che qualcuno le tolga da lì ma entrando vedo qualcosa che mi blocca: un signore, in controluce lontano nel corridoio, si alza dalla carrozzina e butta in aria il plaid che teneva sulle gambe, gli infermieri gli danno il cinque a turno. Mentre una risata fragorosa e felice riempie il corridoio, giunge una signora con un casco in mano, glielo porge e con una carezza al volto gli dice qualcosa che finisce con “…amo”. Lui le dà un bacio e scompare a passi veloci verso una porta, allacciandosi il casco.
Oggi come oggi, io non sono più sicuro di niente, va.


Antonio Privitera

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