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E' finita così.
Di tutti i personaggi che avrei potuto interpretare nella mia vita da operetta mi è capitato questo, il mio. A volte penso che la vita sia un teatro dove recitare prevedibili copioni forzati dai ruoli che il destino ci ha assegnato.
Certamente poteva andarmi molto peggio.
Durante gli anni '80 non c'erano ancora telecamere in giro per le strade a sorvegliare che tutti facessero i bravi e io e il mio amico Spanò rompevamo specchietti con i piedi. Prendevamo in prestito un motorino diverso ogni giorno e andavamo in giro la sera senza meta, senza amici e senza paura; mentre Spanò guidava contro ogni regola del codice della strada io sedevo dietro e, stupidamente, alzavo il piede destro fino al livello degli specchietti esterni delle auto in sosta giocando a romperli ridendo come un babbeo, e Spanò assieme a me. Il motorino non aveva targa, in giro non c'erano telecamere, la notte era un lungo intermezzo tra la scuola e la noia dei pomeriggi a guardare gli altri divertirsi o studiare con profitto. A fine serata lasciavamo il motorino appoggiato ad un muro e tornavamo con un autobus ognuno alla propria casa. Degli esami di maturità alle porte ne avevamo soltanto sentito parlare, quello che mi piaceva era rubare un motorino, girare, rompere specchietti come un idiota.
Una mattina presto, proprio dopo la sera in cui avevo festeggiato i miei diciott'anni facendo filotto con ben sedici specchietti di macchine in sosta, arrivarono due carabinieri a casa mia e mentre correvo a nascondermi cercando una bugia credibile da dire per infilarla sotto la lingua pronta ad uscire per come l'avevo pensata, impegnato a maledire i carabinieri e a capire come avessero fatto a trovarmi, sentii passi pesanti attraversare l'uscio di casa e sporgendomi dal corridoio buio vidi mio padre uscire con i ceppi ai polsi, infilarsi dentro una gazzella e sparire dalla mia vista e dalla mia esistenza.
Feci il punto della situazione, dotazione di bordo: un Garelli Vip 3, quello di mio papà.
Tutto quello che avevo era sospeso tra due ruote.
Mi rintanai a casa e attesi qualche giorno che mio padre tornasse, senza andare né con Spanò, né a scuola. Trascorrevo le mattine a letto e i pomeriggi a girare col motorino nel cortile del condominio sotto gli occhi infuriati del portinaio che subiva le pressioni degli altri condomini, decisamente inviperiti dalla mia condotta a dir poco incivile ma ugualmente spaventati dalla mia immeritata fama di ragazzo irascibile e vendicativo oltreché figlio di uno che stava in galera. Il portinaio si chiamava Sicurella e al di là di un modesto sguardo di disapprovazione non andò mai. Continuai a lucidare e a truccare il motorino, del resto era l'unica cosa che potevo fare.
Passati sei giorni senza avere notizie di mio papà ed esaurito pure l'ultimo pacco di crackers, risolsi di affrontare la situazione e garantirmi almeno un pasto caldo al giorno. Avviai il motorino, per il quale le Vespa parcheggiate nel cortile condominiale erano una sorta di distributore gratuito di miscela, e mi diressi verso l'officina del fratello maggiore di mio padre, Ugo, che riparava automobili e motociclette. Sapeva già tutto e porgendomi una tuta da lavoro già unta mi avvertì che si iniziava la mattina alle sette e si finiva la sera alle sette.
La vita da apprendista meccanico non mi stimolava ma almeno potevo approfittare degli utensili e degli attrezzi di mio zio Ugo, magari celandomi dietro una macchina in riparazione o approfittando delle sue brevi assenze durante il giorno, per armeggiare sul motorino che oramai la cilindrata 50 l'aveva abbandonata da un bel pezzo per ricevere anche modifiche radicali come il raffreddamento ad acqua, il carburatore da 24, quest'ultimo rubato ad un 125 in sosta, una marmitta grossa e grassa e un freno a disco anteriore. Lo so che sembra impossibile che io girassi per la città con questo ordigno ma erano altri tempi e tutto era più tollerato, meno europeo.
Zio Ugo iniziò presto a stancarsi del mio scarso rendimento e invece di sbattermi sulla strada mi fece una proposta: dato che ero magro, sveglio e mi piaceva correre mi propose di guidare le motociclette che alcuni suoi amici preparavano per delle gare di accelerazione che si tenevano la mattina presto sulla strada dritta vicino l'aeroporto. Gare clandestine. Accettai all'istante, come avrei potuto rifiutare? Mi aveva appena proposto di essere pagato per giocare con le motociclette, annusare benzina proibita, raggiungere velocità altissime e ricevere plauso e approvazione per questo. Ugo mi regalò un casco con la visiera scura, un po' stretto e con qualche graffio.
Vinsi immediatamente le prime gare, una dopo l'altra. Le competizioni erano brevi, non facevo in tempo a mettere la quarta che si tagliava il traguardo, i soldi passavano di mano tra le decine di persone che scommettevano sull'esito della gara e si fuggiva rapidi dentro un furgone. Prima del via la strada veniva bloccata da amici e poi subito dopo liberata, i pochissimi automobilisti che passavano di lì a quell'ora, sempre tra le cinque e le cinque e un quarto della mattina, sapevano e aspettavano pazienti per pochi minuti senza mostrare nervosismo e senza guardare nessuno negli occhi, chiusi nella loro automobile, rassegnati.
Ogni tanto mio zio Ugo mi ordinava di perdere e quelle volte guadagnavo ancora di più. In breve divenni il pilota più richiesto dai meccanici per le loro gare d'accelerazione, mi chiamavano pure dalle provincie vicine per gareggiare in queste corse clandestine, c'erano sempre un sacco di soldi in giro e una parte andava a finire nelle mie tasche; aprii un libretto di risparmio alle poste, mi misi in regola con l'affitto, iniziai a vestirmi con vestiti migliori e a mangiare con più gusto. Feci queste corse per tanti anni, assistendo all'evoluzione tecnica delle motociclette degli ultimi decenni. Misi il sedere sopra i primi bicilindrici veramente potenti, usai i primi quick shifter, ruppi ogni tanto qualche motore o qualche cambio e alla stessa maniera rilevai la stupida, infantile cupidigia degli scommettitori e dei preparatori delle motociclette che poi andavo a guidare.
Immancabilmente, un giorno ci scappò il morto: un ragazzo fu accoltellato nella ressa per la distribuzione delle vincite e in pochi minuti tutti sparimmo ancora più velocemente di come eravamo soliti fare, lasciando una chiazza rossa sull'asfalto proprio accanto alle strisce nere delle accelerazioni. Volatilizzati.
Dopo quel mattino di marzo, mi chiamarono ancora per correre: io rifiutai, avevo quasi quarant'anni e accolsi quel segnale come un segno del destino che mi ammoniva di chiudere con le corse clandestine quando ero ancora un vincente e sopratutto senza avere commesso reati troppo gravi. Potevo certamente fare qualcosa di diverso, mi sentivo pieno di energie positive.
Mi proposi come collaudatore, magazziniere, operaio, come tuttofare; pagato poco, sottopagato, in nero. Niente. Nessuno mi dava lavoro perché tutti mi conoscevano per ciò che ero e sopratutto la notizia della morte di quel ragazzo aveva ulteriormente insozzato la mia già sdrucita reputazione.
Al di là delle moto e delle gare non ero riuscito a coltivare nulla; non avevo una relazione stabile con una donna, i miei parenti li avevo persi di vista da tempo immemore, le amicizie che tenevo in piedi si rivelarono effimere ed opportunistiche, svanendo appena mi ritrovai in cattive acque.
Decisi di ripartire da dove avevo lasciato.
Presi il vecchio ma ancora arzillo Vip 3 di mio padre e invece di spaccare specchietti (che come tutti i gesti atti a creare danno a qualcuno ma che non portano vantaggio a nessuno sono da reputarsi azioni da idioti), mi misi a trasportare pizze a domicilio la sera. Ma i tempi erano diversi e un motorino truccato come un dragster non passava più inosservato dalle forze dell'ordine così una sera d'estate, con il cassone delle pizze sulle spalle, da una gazzella dei carabinieri mi fecero segno di accostare ma non mi fermai e ne nacque un inseguimento furibondo. Privo di targa, tirai il collo al motore ad ogni rettilineo, zigzagai tra le macchine, imboccai rotonde al contrario per seminare i carabinieri che ad un certo punto spararono dei colpi di pistola, credo in aria; fui sul punto di credere di averli beffati quando mi trovai davanti un ragazzino con uno scooter in controsenso: per evitarlo feci una manovra disperata che mi portò in mezzo ai tavoli di un caffè all'aperto, impattando in pieno con il carrello degli aperitivi e ferendo lievemente un cameriere. Cercai di rialzarmi da terra ma gli avventori inferociti mi bloccarono e subito dopo venni arrestato dai carabinieri che non mi risparmiarono né l'ironia, né qualche scossa di assestamento appena giunti in caserma.
Pochi giorni dopo entrai nell'aula di tribunale per essere processato per direttissima e lì mi resi conto che non ero lì per le violazioni al codice della strada ma per l'omicidio di quel ragazzo la mattina di marzo di tanti anni prima. Qualcuno aveva fatto il mio nome e l'inchiesta era stata riaperta.
Rischiavo grosso: un rinvio a giudizio per omicidio e nel frattempo il carcere in attesa del processo.
Tenevo la testa bassa ed ero incredulo che mi stesse veramente accadendo questo. Ero sì un delinquente, ma uno di quelli che non fanno male a nessuno, uno stupido, un idiota che aveva iniziato rompendo specchietti e aveva finito la sua carriera di malvivente conto il carrello degli aperitivi tra un'oliva ascolana e i resti delle pizze che trasportava sulle spalle. Il leit motiv della mia vita era un motorino truccato. Ero un motociclista irrequieto e poco incline a seguire le regole, non un criminale; ma chi mi avrebbe creduto?
Entrò il giudice e mi alzai in piedi, trasalii non appena lo vidi in volto. Il giudice lesse delle carte in silenzio, mi guardò calmo e rivolto all'aula disse delle cose che io non capii; poi si alzò e tolse il disturbo.
Io fui un uomo libero da quel momento, mi lasciarono andare e mi rimase sul groppone solo l'inseguimento e i danni che avevo causato, determinato a pagare tutto quello che dovevo e a rifondare la mia vita su altri e più giusti binari. Tornai a casa da uomo cambiato e mi ritenni fortunato.
⁃ scusi ma mi manca un tassello...
⁃ quale?
⁃ Lei custodisce da anni questa ricca esposizione di moto d'epoca, il cui proprietario era famoso per essere un motociclista passionale ma intransigente; poco dopo essere stato rilasciato lei è stato nominato curatore di questo prestigioso museo della moto, come ha fatto?
⁃ ...è una domanda che mi fanno tanti visitatori invidiosi della mia fortuna... come le ho detto prima, la vita è un teatro e il destino il suo regista. Le ho raccontato la mia storia, non è soddisfatto?
⁃ Io, da giornalista, cerco di andare un po' più in profondità... Lei da trent'anni è il solo curatore dell'esposizione e adesso che il proprietario è morto, l'ha ricevuta in eredità. Mi permette di dirle che è quantomeno inusuale? I lettori vorranno sapere chi è il nuovo proprietario della collezione di moto storiche più importante d'Europa e il modo in cui ne è venuto in possesso.
⁃ La collezione Spanò aveva bisogno di un curatore che sapesse mettere insieme, memoria storica, affidabilità e capacità relazionali con il pubblico e con le istituzioni. Io evidentemente incarno tutto questo anche in un ottica di continuazione dell'attività. E poi il giudice Spanò era mio amico d'infanzia. Negli ultimi tempi mi diceva sempre che se io non fossi scomparso dalla sua vita a diciott'anni, lui sarebbe mai diventato giudice. In un certo senso, l'arresto di mio padre per spaccio e la mia vita turbolenta è stata necessaria per rendere la sua vita una vita agiata e costruttiva e il giudice Spanò ha voluto aiutarmi un pò come gesto di riconoscenza. E ora, se vuole scusarmi, vado a finire di persona un restauro.
⁃ Ah, quale?
⁃ Ho finalmente trovato una marmitta “Proma” per un vecchio Vip 3 marce. Vorrei montarla personalmente.
⁃ Buon lavoro.
⁃ Grazie. Buon lavoro anche a lei e a tutti i suoi lettori.
Foto: Giornale di Puglia