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A ventisette anni ho terminato gli studi di ingegneria e iniziato a lavorare nell’azienda di mio padre, in totale autonomia e libero di proporre tutti i progetti di motociclette che mi pareva: da allora la mia sedia e la mia scrivania sono cambiati sei volte, il computer almeno dieci e mi fanno male i polpastrelli a furia di sbatterli tutto il giorno sulla tastiera. In un solo anno sono balzato in alto nella scala gerarchica dell’ufficio ricerca e sviluppo di questa Casa motociclistica ricca e antica diventandone rapidamente il capo, ossequiato da tutti anche se mi amareggia il non avere il tempo per provare i miei prototipi; decine di collaudatori freddi come automi mi restituiscono report dettagliatissimi, i sensori fanno altrettanto e io sono sempre chiuso qui dentro a sfornare numeri da interpretare come auspici di un oracolo.
L’Ingegnere sa tutto, dicono, chiedi all’Ingegnere. Quando “ingegnere” inizia con una maiuscola oltre al consueto rispetto ricevo una bella riverenza ed il gioco è fatto: l’“Ingegnere” rende superfluo il mio cognome e a momenti non lo ricordo nemmeno io.
Ma ora sono diventato vecchio ed ho i miei rimpianti; truffato dalla mia voglia di creare e dalla passione per le motociclette, ho svernato in questi uffici una cattiva stagione lunga quarant’anni senza mai prendere un giorno di pausa e temo che oggi alla soglia dei settanta sia troppo tardi per dire basta. Del resto, non me lo concederebbero, sono ancora troppo importante per l’azienda. Feci il tentativo, qualche anno fa, di far capire che ero stanco e che volevo smettere e mi ingegnai a scrivere una lettera di dimissioni ma, tanto per iniziare, la lettera non riusciva mai ad essere salvata nel mio pc, cliccavo su “salva” e non succedeva nulla. Poi la stampante, senza una ragione precisa, rifiutava di funzionare e così non potevo nemmeno metterla su carta; tentai di mandarla all’ufficio del personale via e-mail ma niente, non figurava mai tra la posta inviata. Provai per diversi giorni a dare le dimissioni ma la cosa più insopportabile e strana era che quando mi ponevo in mente l’obbiettivo di licenziarmi, l’intero stabilimento si svuotava ed io mi ritrovavo da solo alla mia scrivania: il grande open space che è il mio centro di ricerca e sviluppo diventava inspiegabilmente uno spazio vuoto; soffro tuttora di agorafobia e in quei casi diventava necessario prendere le mie pillole per calmare l’ansia e ritornare a lavorare su motori e telai. Appena rinunciavo a scrivere la lettera di dimissioni in cinque minuti l’ufficio si ripopolava dei miei colleghi, tutti in camice bianco perché la direzione generale vuole mantenere un certo stile un po’ anni ’70, quando gli ingegneri avevano i camici immacolati e i calcoli si facevano orgogliosamente a mano. Alla fine ho smesso di tentare il licenziamento, tanto qui sto bene.
Sono stato a capo di tutta la progettazione di motociclette negli ultimi quarant’anni di vita di questo Marchio. Entrato in azienda perché andare in motocicletta era la mia più grande aspirazione e passione, mi sono accorto subito che il lavoro mi sottraeva totalmente il tempo per godere di una moto mia, e le uniche sensazioni me le restituivano i tester e i freddi numeri che mi aiutavano a imbastire e perfezionare motociclette sempre più performanti e perfette.
Eppure oggi i numeri che ottengo dal mio programma di calcolo non mi soddisfano e non comprendo più il loro messaggio. In questi casi apro il cassetto sotto la mia scrivania e do una nostalgica occhiata alla foto di Giustina, la mia fidanzata. Ex-fidanzata, per essere precisi. Da quando lavoro qui non l’ho più sentita perché troppo occupato con i miei rivoluzionari progetti, i primi tempi mi mancava e inutilmente provavo anche a rintracciarla. Poi, sempre più impegnato, smisi di cercarla e credo che anche lei abbia smesso di aspettarmi; aveva tre anni in più di me, magari oggi si sta godendo il preludio della vecchiaia mentre a me invece è rimasta la sua foto sbiadita che sbircio ogni tanto per ricordarmi delle cose piacevoli, distrarmi dai calcoli e prendere un po’ di fiato.
Dei miei genitori ho perso le tracce appena prima di entrare in azienda. I contatti con mio padre si sono diradati e poi spenti nonostante lavorassimo nello stesso stabilimento e ho saputo della sua morte solo perché la sede ha chiuso e io sono rimasto solo per due giorni. Di mia madre credo di non avere ricordi, forse qualcosa, ma non potrei giurarci, che riguarda delle liti con mio papà; non ho parenti, che io sappia. Al di la di queste quattro mura, non saprei dove andare. Dormo in una stanza dentro questo complesso industriale, non spendo denaro in nulla, non ho amici a parte i colleghi e non esco mai dal perimetro della sede. Un perimetro ampio, pieno di verde, dove passeggia gente cortese che mi saluta “buongiorno Ingegnere”!
Ho un solo vero desiderio, che vorrei realizzare prima che sia troppo tardi per il mio fisico oramai anzianotto: guidare il mio prototipo più bello, uno di quelli da corsa. Mister G. mi ha promesso che oggi me lo avrebbe portato in cortile e fatto provare. Mister G. avrà un nome, ma io leggo solo i badge e sui badge c’è scritto solo Mister G.
Mister G. ha gli occhi buoni, avrà trent’anni, la scarpa sinistra macchiata di nero all’altezza dell’articolazione dell’alluce e mi dice spesso sottovoce che non devo più prendere le pillole per l’agorafobia. Mister G. mi ha raccontato, mentre mi consegnava i report dei collaudatori, di un posto dove si può parlare senza essere visti da nessuno, che anche se sono quasi vecchio posso uscire fuori di lì e andare in moto come facevo a vent’anni con le motociclette della fabbrica di mio padre e mi ha chiesto se io mi ricordo qualcosa di com’ero a quell’età. Mi ha parlato di un incidente, ma io non ho capito.
Mister G. è il più giovane degli ingegneri che lavorano qui e che mi trattano come fossi un cristallo delicato, stranamente sono quasi tutti gli stessi da sempre, alcuni hanno quasi la mia età, altri sono andati via perché troppo vecchi e sono stati rimpiazzati da ragazzi come Mister G.
Ho tutto pronto, tuta, guanti, casco ma è passata un’ora da quando Mister G. avrebbe dovuto essere qui con la motocicletta da farmi guidare. Non verrà. Forse anche lui scomparirà come sono scomparsi tutti i colleghi con le scarpe sinistre macchiate all’altezza dell’articolazione dell’alluce. Forse è un virus.
Come scomparve Mister F. che veniva tutte le mattine in motocicletta, anche quando pioveva, e che mi disse di non fidarmi degli altri colleghi.
Come svanì nel nulla Mister M. dopo avermi raccontato che mio padre aveva lasciato in eredità la fabbrica ai colleghi purché si occupassero di me. Forse voleva dire purché non mi licenziassero, ma non ebbi mai modo di chiederglielo.
Non vidi mai più nemmeno Miss Q. che un giorno scoppiò in lacrime e urlò “quest’uomo ha bisogno di cure vere! Dovete aiutarlo!”. Fu destinata, mi riferirono, al controllo qualità.
Restai triste a lungo dopo la morte di Mister K. a seguito dello scoppio di un serbatoio; prima di morire, K. mi fece avere un ritaglio di un vecchio giornale locale dove si parlava del figlio di un potentissimo industriale rimasto vittima di un grave incidente “collaudando” in strada, senza autorizzazione e senza casco, una moto del reparto esperienze dell’azienda paterna; secondo le accuse di quell’articolo d’inchiesta, il padre avrebbe occultato i fatti che avrebbero potuto causare grandissimi problemi d’immagine e pratici alla Casa Motociclistica insabbiando tutto l’accaduto e ponendo fittiziamente il giovane a capo dell’ufficio tecnico anche se privo di qualsiasi qualifica idonea e mentalmente disabile a causa dei gravi postumi dell’incidente. Nell’articolo non c’erano nomi, né date, solo sospetti; quel giornale oggi non esiste più e comunque io ho sempre i ricordi confusi e un gran mal di testa che mi impedisce di concentrarmi. Forse è il caso che prenda due pillole per l’agorafobia e dia un’occhiata alla foto di Giustina, mi sentirò meglio. Vorrei solo che i polpastrelli non mi facessero così male, riposarli un poco; ci deve pur essere un modo più comodo per lavorare al computer.