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Da diverso tempo a questa parte la tecnica motociclistica appare abbastanza “cristallizzata”, con molte soluzioni ormai standardizzate e vari schemi costruttivi che sembrano non più suscettibili di ulteriori sviluppi o di variazioni realmente significative. Insomma, si lavora fondamentalmente a livello di dettaglio, cercando di migliorare ulteriormente ciò che è stato già portato a un livello di sviluppo straordinario. Questo è confermato dal fatto che le potenze specifiche, che in precedenza subivano cospicui incrementi da un modello a quello successivo, negli ultimi anni sembrano essersi stabilizzate su determinati valori, dai quali non si spostano se non in misura assai modesta, con l’apparire di nuove versioni. Insomma, c’è ancora da fare, ma si tratta di perfezionamenti e non di profondi cambiamenti, con relativa comparsa e affermazione di nuove soluzioni tecniche.
Alla luce di queste considerazioni può essere interessante osservare come si sono evoluti nel corso degli anni tanto i motori quanto la ciclistica, fino ad arrivare alla situazione odierna. In fondo, spesso viene spontaneo chiedersi in cosa differisca una moto attuale da un modello analogo degli anni Sessanta o Settanta.
Lo sviluppo, che ha coinvolto non solo le case motociclistiche ma anche i produttori di componentistica, ha avuto luogo con obiettivi ben precisi, accentuati dalla concorrenza tra i vari costruttori: prestazioni via via più elevate, maggiore durata e superiore affidabilità. Anche la rumorosità meccanica è diminuita, come pure la “ruvidità” di funzionamento; le vibrazioni moleste poi sono diventate solo un ricordo. L’esigenza di contenere le emissioni di scarico, apparsa diversi anni fa, è diventata sempre più sentita con il passare del tempo. E non si deve tralasciare l’importanza della compattezza del motore, oggi addirittura fondamentale per certi tipi di moto, come quelle da corsa e da cross.
Tralasciando ogni considerazione relativa ai sistemi di alimentazione, con gli impianti di iniezione che hanno sostituito i carburatori (salvo che nei motori utilitari e/o di piccola cilindrata), e al raffreddamento, che nei motori di prestazioni molto elevate da anni è invariabilmente ad acqua, appare subito evidente l’affermazione delle teste bialbero a quattro valvole per cilindro. Ormai da tempo le distribuzioni ad aste e bilancieri sono impiegate solo da un ridotto numero di modelli, in genere di impostazione classicheggiante o “old style”; godono invece di una buona diffusione le teste con un unico albero a camme, di struttura più semplice e più compatta rispetto a quelle bialbero. In queste ultime le masse in moto alterno sono minori e la rigidezza del sistema di comando delle valvole è superiore, il che le rende insostituibili quando si cercano le massime prestazioni, ovvero nei motori da competizione e in quelli delle supersportive.
Dopo una serie di tentativi con le cinque valvole per cilindro la Yamaha ha adottato definitivamente la soluzione a quattro valvole
Dopo una serie di tentativi, interessanti e coraggiosi, tesi a dimostrare la superiorità delle cinque valvole per cilindro, o almeno di dimostrarne la validità come alternativa alla soluzione convenzionale, la Yamaha ha adottato definitivamente quest’ultima, passando alle quattro valvole. Pure la Rotax ha sviluppato e impiegato per diversi anni una testa a cinque valvole per i suoi grossi monocilindrici. Per non parlare del settore automobilistico, nel quale tale soluzione ha avuto vari sostenitori.
Un accenno meritano anche le teste a tre valvole. Le hanno impiegate ben pochi motori, ma tra di essi c’era il bicilindrico Honda a V di 52° delle famose Transalp e Africa Twin apparse negli anni Ottanta. E oggi c’è anche un modello di grande diffusione del gruppo Piaggio.
Sempre alla Honda è dovuto un impiego diffuso delle valvole davvero radiali, montate in teste monoalbero e comandate da due bilancieri ciascuna (uno a dito e uno a due bracci). Le hanno utilizzate modelli importanti come la XL 600 e la Dominator. La camera di combustione era realmente emisferica.
Una soluzione ben diversa da quella che prevede valvole disposte radialmente solo in misura molto modesta (qualche grado appena), comandate in maniera convenzionale e impiegate in certi motori bialbero ultraveloci, da competizione o supersportivi (MV Agusta).
Molto importante è stata anche l’evoluzione dell’angolo tra le valvole. Nelle teste in cui queste erano due per cilindro, esso era spesso molto grande. Nei motori di serie italiani, all’inizio degli anni Settanta erano comuni valori dell’ordine di 70° (Guzzi, Laverda 750); qualcuno arrivava anche a 80° (Ducati con distribuzione comandata da alberelli e coppie coniche), anche se in precedenza non erano mancati interessanti esempi di inclinazioni nettamente minori (vedi Morini 175 degli anni Cinquanta, con 56°). La strada verso una riduzione dell’angolo in questione è stata imboccata con decisione da case come la Honda con i suoi CB Four (58° nel 750, 56° nel 500 e 54° nel 350/400) e la BMW (62° nei boxer a due valvole a partire dalla serie /5). Ben presto diversi costruttori si sono stabilizzati attorno ai 60° (Ducati della serie Pantah, Kawasaki 4 cilindri ad aria). Come valori particolarmente bassi, spiccano i 40°30’ della Laverda 1000 e successivamente i 38° delle BMW K100 e K75.
Pure nei motori a quattro valvole per cilindro si è avuta una riduzione dell’angolo tra le valvole stesse, che si è accentuata dopo l’affermazione del raffreddamento ad acqua, consentendo la realizzazione di camere sempre più compatte e dalla geometria più “pulita”. Nei policilindrici di alta potenza specifica, negli anni Ottanta erano largamente utilizzati dai principali costruttori valori dell’ordine di 38° - 40°. Nel decennio successivo ha avuto luogo una diminuzione, con passaggio dapprima ad angoli dell’ordine di 30 – 35° e quindi ai valori attuali (mediamente compresi tra 21°e 26°), che sono immutati ormai da oltre una quindicina di anni, segno che ormai si è raggiunta una situazione ottimale.
Per quanto riguarda le valvole, sono evidenti un aumento generalizzato della lunghezza e una diminuzione del diametro dello stelo. Il rapporto tra quest’ultimo e il diametro del fungo è sceso da un valore dell’ordine di 0,20, tipico della fine anni Sessanta, a circa 1,14 (sempre con riferimento ai motori supersportivi), che sale dalle parti di 1,5 se le valvole sono in lega di titanio.
In quanto alle molle, nei modelli da competizione degli anni Cinquanta (esclusi i quadricilindrici!) la scena era dominata da quelle a spillo, che hanno avuto largo impiego anche nei motori delle vetture Sport e di Formula Uno della stessa era, oltre che in diverse moto di serie. In seguito la loro utilizzazione è diminuita; gli ultimi modelli stradali che le hanno usate sono stati i monocilindrici Ducati della serie a carter Larghi (ossia, dei famosi Scrambler). Le molle elicoidali si sono evolute con importanti miglioramenti metallurgici e l’affermazione di versioni a passo variabile. Negli ultimi anni sono comparse molle “beehive”, con una parte inferiore cilindrica e una superiore troncoconica; inoltre, in molti casi questi componenti vengono realizzati con filo con sezione ovale (“multi-arc”) e non circolare, come vuole la soluzione convenzionale.