Il raduno invernale

Il raduno invernale
Un raduno fuori dagli schemi, senza tecnologia. Lo scenario perfetto per il delitto perfetto
2 marzo 2018

Il primo quarto d’ora di sole assottigliò irreparabilmente il ghiaccio. Con un crack brusco come una mazzata su una vetrina, la forcella e il manubrio furono inghiottiti dal lago; seguirono il motore abbracciato dal telaio, che trascinò con sé il retrotreno fino alla luce di coda, in un lampo rosso di commiato: addio Jack.

Ero rimasto a guardare, con le mani gelate nonostante i guanti e i piedi rigidi come paletti, seduto di sbieco sulla mia Harley, gli occhi dipinti sul passamontagna sotto il casco, il respiro, che per buona parte della notte aveva intiepidito ad intervalli regolari la mia barba, si era appena più rarefatto nel momento in cui l'acqua gelata punse Jack fino ad un repentino risveglio, e alla probabile consapevolezza di avere bisogno di un prete, o di un amico. La moto si inabissò, e non accadde come si vede nei film, che poi la superficie ribolle un po’, come se ci fosse un piccolo vulcano sul fondo o come se un ferro rovente ci venisse spento: il lago non si accorse nemmeno dell’uomo legato ad una moto diretta verso il fondo, il lago dalla superficie ghiacciata forse pensava ad altro, distratto dal freddo; perché era inverno, e in inverno non si va in moto. Cazzo se era freddo.

Devo ammettere che tutto sommato non ero soddisfatto.

Jack era morto. E io non ero ancora contento. Pensavo non fosse abbastanza, farlo morire legato alla sua moto; forse non era stato abbastanza.

Avviato il 107 pollici cubi, in dieci minuti tornai all’accampamento: si alzava un filo di fumo dal centro della fossa, dubito che fosse una nave, e ancora meno che ci fosse una Suzuki ad aspettarmi, perché quello era un raduno totalmente american-style (nessuna moto giapponese o italiana, cecoslovacca o tedesca, meno che mai inglese, quelle poi...) sarebbe riuscita a varcare l’ingresso del Winter Jubilee; nessun estraneo, solo noi: centinaia di moto coperte da una sottile glassa di ghiaccio. Mentre facevo lo zaino attesi il risveglio di Alessio, Filippo e Riccardo, motociclisti conosciuti sul posto coi quali avevamo deciso di condividere l’area dove eravamo accampati. Il primo ad aprire gli occhi fu Riccardo, al quale chiesi di comprendere la mia fretta di tornare in città, dovevo ricominciare a lavorare. Mi chiese di Jack, risposi che lui e il suo sidecar erano già in viaggio verso Torino e che li salutava tanto. Sputai per terra, diedi degli strattoni ai cavi per fissare meglio le borse al telaio: vidi passare un sidecar sul fango e mi diede l’impressione che stesse per abbandonare un campo militare della seconda guerra mondiale, perché l’uomo sopra aveva la faccia dura e stanca, come reduce da una notte di guardia e pronto ad una giornata di trasferimento verso il fronte. Anche il sidecar era stanco, incatramato e rumoroso.

Mi diressi a piedi verso il box dell’organizzazione con in mano il bigliettino per andare a recuperare il mio Iphone, poi avrei avuto un minuto per uscire dall’unico varco di accesso, e avrei riacquistato la mia strada. Ma in direzione c’era già ressa, e puzzo di sudore vecchio: almeno una settantina di motociclisti erano accalcati sui banchi per reclamare le proprie appendici tecnologiche, chi il telefono, chi l’action cam o la macchina fotografica. Inevitabilmente durante i tre giorni del raduno c’era pure stato qualche furbo, ma il regolamento sottoscritto da tutti i partecipanti parlava chiaro: non soltanto la vigilanza interna, ma chiunque al raduno era autorizzato a requisire e distruggere qualsiasi strumento capace di fare riprese o di comunicare con l’esterno dell’accampamento, espellendo il proprietario dal Winter Jubelee. Due motociclisti di Ancona furono presi a calci fino all’uscita e le loro moto scaraventate nel fango, a causa della loro ritrosia a consegnare lo smartphone; un cialtrone di nome Emil, per avere tentato di riprendere i fuochi serali del primo giorno e la baldoria ubriaca dell’uccisione del maialino da arrostire, fu ricoperto di insulti, poi trascinato fino alla strada sullo sterrato umido e il casco riempito delle interiora del maialino sacrificale prima di spingerglielo sulla zucca. Onestamente, non era una pena eccessiva: se accetti le regole del Winter Jubelee poi le devi seguire, altrimenti stai a casa.

Il Winter Jubelee era nato col passaparola: niente annunci o post sui social, unico requisito per essere ammessi era il possedere una moto americana mossa, si capisce, da un motore a scoppio. Niente frullatori elettrici, divieto assoluto di portare con sé o di divulgare immagini o video di un raduno dichiaratamente rozzo, scarno, brutale, volontariamente selezionato per quei pochi selvaggi che ne sarebbero venuti a conoscenza, ed esclusivo come una messa nera o un bivacco di pastori sulle alture del Golan. Nessun servizio igenico, assente qualsiasi punto di ristoro, per mangiare ci si porta le vivande da casa, si dorme per terra e in tenda, è presente un’equipe medica soltanto per i malesseri più gravi. Non si sa chi sia stato l’ideatore, c’è però uno staff che garantisce il rispetto delle regole e l’organizzazione dell’evento, compresa la sicurezza interna per il rispetto della privacy e dello spirito del raduno. Biglietto di ingresso 300 euro, giustificati dall’ampiezza della zona recintata attorno al lago ghiacciato e dalla necessità di ungere qualche ruota per ottenere i permessi. Entri, paghi, consegni telefono e videocamera, firmi il modulo e per tre giorni sei fuori dal mondo ma dentro il delirio. Sembra che tornare trogloditi per un weekend, piantare la tenda nella neve, mangiare carne non frollata o goulasch cotto in pentoloni lerci su fuochi improvvisati, percorrere centinaia di chilometri in condizioni scomode e pericolose per il gusto di bere vino di pessima qualità assieme a perfetti sconosciuti cui si riconosce un’affinità, dia il piacere di tornare veri uomini. Per me era la prima volta, e per tornarci avrei dovuto trovare un motivo convincente; tra l’altro la mia virilità non è in crisi e non ho bisogno di conferme.

Attesi quasi mezzora, feci la coda accanto ad una donna che fumava, venne il mio turno, recuperai l’Iphone e tornai alla moto. Prima inserita, piano col fango, dritti verso una doccia calda.

Non accesi il telefono.

Jack era morto, mi riversai sulla statale a novanta all’ora e lasciai che le chiazze di umido sul motore diventassero impronte di sporco, mancavano quattrocento chilometri fino a casa e per pisciare avrei fatto come i ciclisti.

Non ero abituato a tanto freddo, uso la moto soltanto d’estate e guidare con l’abbigliamento pesante mi impaccia, però il vento gelido e le strade deserte lucide, la neve a bordo strada, le lastre di ghiaccio a tradimento, tutto ciò possiede un innegabile fascino epico cui attingono tutti i reduci dai raduni invernali quando si riempiono la bocca con la parola avventura. Uh-oh… avventura: bene, la mia era quasi finita, Jack giaceva in fondo al lago.

Sotto il casco la mia barba puzzava di fumo, sicuramente quello della donna che aveva aspettato vicino a me la riconsegna dei telefoni, e più procedevo più quell’odore mi era insopportabile, finché non mi arresi e cercai un posto dove entrare e lavarmi per cancellare il tanfo di sigaretta.

Parcheggiai di fronte ad un bar, dentro c’era una ragazza al banco, in fondo la porta del bagno. Ordinai un cappuccino che bevvi abbracciandolo con le mani gelate, il vapore mi riscaldava la punta del naso e il liquido caldo scioglieva l’articolazione della mandibola. Chiesi della toilette, vi entrai ed era bella, pulita e con un grande specchio al centro. Aprii l’acqua calda fino a vedere il fumo e vi misi le dita, poi le mani a coppa e mi lavai il viso col sapone liquido osservando l’acqua scura colare sul lavandino. Mi osservai a lungo allo specchio, avevo il volto di chi era reduce da una battaglia infernale e non conta se era stata vinta o no, certe battaglie lasciano il segno per sempre.

Tentai di non piangere.

Bussarono alla porta. Era la ragazza del banco che mi chiedeva se era tutto okay. Sì, va tutto bene, grazie. Scusi, quanto devo? Ecco, grazie ancora. Buona domenica.

Ripresi la marcia con l’odore del sapone liquido su per il naso. Sempre meglio del catrame bruciato.

All’uscita del paese mi fermarono i Carabinieri, erano in tre. Mi chiesero i documenti.

- dove sta andando?

- torno a casa, a Torino. - risposi.

- con questo freddo? Dove è stato? - osservava la mia moto piena di fango.

- ho fatto un giro di qualche giorno per i monti, fino al lago. - ma si vedeva che la mia risposta non lo aveva convinto.

- Bene, bene… e che mestiere fa signor… - guardò i documenti - Russo?

- Sono un medico. Neurochirurgo, per l’esattezza. - risposi impassibile.

Passarono dieci minuti, loro con giubbotto e mitra mentre mi rimettevo il casco perché avevo freddo: mi fu ordinato di toglierlo. Controllarono, mi fecero l’etilometro e lì nessun problema, a meno che il cappuccino non fosse stato corretto a mia insaputa. Il tempo di scrivere qualcosa sui loro fogli, a me sembrò come l’attesa fuori dalla sala parto.

- Tutto a posto signor Russo, può andare. Mi raccomando vada piano, il ghiaccio potrebbe giocarle un brutto scherzo.

- Grazie, starò attento. - cercai di dissimulare la fretta con la quale rimettevo ordine tra i documenti.

Pigiai il bottone d’avviamento ma il motore non prese vita, solo un lento miagolio, spia della morte della batteria azzannata dal freddo. I Carabinieri si avvicinarono e dissi che forse dovevo fare partire la moto a spinta, ma con un motore così grosso e le strade umide sarebbe stato un problema. Il più anziano dei tre allora mi intimò di chiamare un carro attrezzi, non volli contraddirlo e fui costretto ad accendere il telefono, per farlo mi allontanai un poco: trovai 126 messaggi da 22 chat. Scorsi la lista fino a trovare la chat che temevo, lessi il messaggio “hai terminato il lavoro? Chiama”.

Sì, avevo portato a termine il mio lavoro.

- Vuole che lo chiamiamo noi? - mi urlò un carabiniere.

- Grazie tante, ho mandato un messaggio, tra non molto mi verranno a prendere con un furgone, gentilissimi. - spensi il telefono.

Rimasi fermo qualche metro più in là, facendo finta di attendere un amico che non sarebbe mai arrivato; i Carabinieri fermarono una Panda con due ragazze a bordo, una Citroen in eccesso di velocità, due spaventatissimi ragazzi con il motorino e dopo mezzora andarono via, mi salutarono con un cenno cui risposi con sorridente deferenza.

Attesi dieci minuti, misi la terza e tirai la frizione, la strada era in discesa e raggiunti i venti chilometri all’ora lasciai la leva, la ruota posteriore si bloccò e l’Harley si intraversò ma riuscii comunque ad avviare il motore.

Andavo piano, alcune motociclette viste al raduno mi sorpassarono allargando la gamba in segno di saluto, certamente molti altri avevano preferito l’autostrada per tornare a casa: non io, che comunque avevo bisogno di tempo per riflettere sospeso in quel limbo dove orbitano i pensieri tenuti insieme dalle vibrazioni e dal freddo.

A circa cento chilometri da casa mi accorsi di un SUV bianco nei miei specchi retrovisori da almeno dieci minuti. Forse avevo sbagliato a non portarmi dietro un’arma. Rallentai fino a cinquanta chilometri l’ora: l’automobile non mollava, feci finta di niente e attesi un punto dove poter fare perdere le mie tracce. Il SUV prese a sfanalare, io mi portai a destra come per farlo passare, invece mi affiancò e dal finestrino un uomo non giovanissimo con la barba lunga mi fece segno di accostare. Lo avevo visto al raduno, decisi di fermarmi ma di restare sopra la moto.

Il tipo si avvicinò:

- Senti, per caso conosci un certo Giacomo? No, perché ci sembra di averti visto insieme a lui al Winter Jubelee.

- Sì, è un mio amico, eravamo venuti insieme. Perché?

- Siamo dell’organizzazione, lo sai che il tuo amico ha lasciato il carrozzino del side al lago?

Tirai un sospiro di sollievo. Tutto qui?

- Certo! Aveva fretta e stamattina è partito leggero, tra l’altro mi sembra che abbia rotto gli attacchi facendo qualche cazzata sul fango, lo verrà a prendere col furgone domani.

- Poteva almeno avvertirci! Abbiamo dovuto toglierlo noi dal centro della fossa, per lasciare libera l’area. Se lo vedi, digli che l’anno prossimo non sarà il benvenuto al raduno!

- Mi dispiace.

- Mah… così, solo per dirtelo. - risalì in auto e andarono via. Imbecilli, pensai.

Percorsi gli ultimi chilometri col timore di arrivare e la consapevolezza che non avrei mai potuto raccontare a nessuno la mia avventura del raduno invernale.

Giunsi sotto casa di Milena, erano le cinque del pomeriggio.

Riaccesi il telefono, mandai un messaggio. Il portone si aprì, Milena salì sul sellino posteriore e ci dirigemmo verso il Po, senza fare troppo rumore.

- Perché non hai chiamato? - mi disse.

- Non ero pronto.

- Neanche io ero pronta, ma lui ha voluto così.

Arrivati vicino alla Grande Madre parcheggiammo, ci aspettava il fratello di Giacomo sulla sua moto, più il silenzio e il ticchettio dei motori che si raffreddavano velocemente.

Guido mi diede un assegno, intestato alla mia associazione per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica. Lo controllai, era maggiore dell’importo di cui avevamo parlato prima che accettassi l’incarico.

- Grazie dottore. Tra qualche tempo lei potrà andarne fiero, perlomeno con se stesso. Mio fratello è riuscito ad andarsene come desiderava, sopra la sua moto e non in un letto d’ospedale, io e Milena non le saremo mai abbastanza grati. - disse.

Milena non trattenne i singhiozzi, Guido l’abbracciò, io restai impietrito e l’unica cosa che trovai sensata fu mettere in moto la mia Harley, quantomeno per coprire il silenzio.

- I malati di SLA muoiono a casa, Guido. Non in ospedale.

- Mio marito non era un uomo di casa, e nemmeno d’ospedale. - intervenne Milena.

Misi l’assegno nel giubbotto, indossai il casco e salii in sella.

- Ci vediamo domani in studio, Milena.

- Certo dottore.

Fu il mio primo Winter Jubelee. Per fare il secondo pretesi il doppio.

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