Il sosia

Il sosia
Un'incredibile somiglianza. Un momento molto difficile. Il desiderio di cambiare vita, e... una Vespa 50 Special
5 gennaio 2018

La Rubrica Letteraria di Moto.it è uno di quei luoghi fortunati e liberi dove in questi ultimi sette anni sono passati molti racconti e diversi autori; forte della mia presenza piuttosto... abbondante su queste colonne, oggi vorrei introdurvi un moto-vespista-tricliclista-scrittore di Roma, Giacomo Di Silvestro del quale ospitiamo “Il sosia”.

Giacomo scrive da tempo: ci tengo a sottolineare che a me il suo racconto piace, mi piace l'intensità e la fuga veloce del suo finale, e sono sicuro che, come ogni buon racconto, vi farà dire che i cinque minuti spesi a leggerlo sono stati i migliori dell'ultima ora. Buona lettura.

Antonio Privitera

Il sosia

Le urla provenivano da una vecchia officina che dava sulla piazza dove mi trovavo. Anch’io, come il fioraio e il tabaccaio, non potei fare a meno di gettare un occhio in quella direzione: una macchina si era accostata all’ingresso e dal suo interno qualcuno, senza spegnere il motore e senza scendere, inveiva contro colui che doveva essere il meccanico, a giudicare dalla tuta, di colore blu e striata di grasso nero. Forse ad urlare era un cliente insoddisfatto della prestazione. Nel replicare, il meccanico gonfiava una grossa vena del collo, fino alla base della mascella: anche a distanza la riconobbi benissimo. In occasioni simili, il mio collo formava lo stesso rigonfiamento. Dalla vena, mi spostai sui connotati e i lineamenti dei viso. Quell’uomo mi assomigliava, e molto: sembrava un sosia. La macchina sgommò via ed il meccanico le urlò contro un “Non vi pago, brutti stronzi! Smettetela di rompere il cazzo!” seguendola per qualche secondo con lo sguardo, per poi concedere le sue attenzioni ad una Vespa blu, posizionatagli di fronte. Tanto tempo prima avevo avuto una Vespa uguale a quella. Il trillo del cellulare mi ricordò dell’appuntamento, quello con l’avvocato divorzista. Lo studio era proprio nel palazzo antistante l’officina, e lasciai il meccanico domandandomi se magari tutti i drammi, compreso quel matrimonio fallito, fossero in parte dovuti all’avere un sosia, nascosto da qualche parte: metti il caso la sorte si confonda e gli conceda la tua parte di fortuna o conceda a te la sua parte di sfiga.

Mi aprì la porta la segretaria, guardandomi appena, e mi collocò in una saletta d’attesa. Le sorrisi, domandandomi se le segretarie degli avvocati divorzisti fossero meno inclini al matrimonio, dopo quel che sentivano tutti i giorni. Mi affacciai alla finestra con vista sulla piazza antistante: riuscivo ancora a scorgere il mio nuovo amico, inginocchiato ora di fronte al motore di una Harley. Non era solo, altri due tipi dall’aspetto poco raccomandabile si aggiravano con degli arnesi in mano. Da come impartiva indicazioni sembrava il titolare dell’officina. Era calmo, nonostante la sfuriata di prima. Mi chiesi quanto spesso gli capitasse di essere avvicinato da un cliente in quel modo, e quale fosse stata la sua reazione la prima volta in cui clienti un po’ villani avevano alzano la voce. Quand’era capitato a me, avevo passato la notte a rodermi il fegato.

La segretaria mi chiamò e mi infilai nella stanza dell’avvocato per uscirne due ore dopo con una buona e una cattiva notizia: la prima era che avrei mantenuto il possesso della casa, la seconda che non avrei più potuto viverci perché l’uso sarebbe stato certamente assegnato alla mia ex. Sarei diventato l’ennesimo possidente a vivere in una macchina e stendere i panni in strada. O al limite ad affittare un appartamento in periferia.

Scesi sulla via per prendere un po’ d’aria e mi slacciai la cravatta. Il meccanico era sempre lì fuori, adesso intento a lucidare le cromature custom con una sigaretta in bocca e uno straccio sul collo con cui asciugava via il sudore. Io avevo smesso di fumare anni prima mentre lui, da come aspirava, sembrava non averci nemmeno mai pensato. La somiglianza era strabiliante, nonostante avesse il viso cosparso di rughe più marcate delle mie, come forse lo erano state le emozioni. Guardava avvicinarsi una bella donna con un bambino per mano e, sorridendo, si inginocchiò per prenderlo in braccio prima di salutarla. Calò la saracinesca a metà e fece uscire anche i due loschi impiegati. Guardai l’orologio: ora di pranzo. Prima di allontanarsi si tolse distrattamente la tuta e l’appese all’interno.

Chissà se era quella a fargli da scudo contro seccature e urla dei clienti. La sfilava in un gesto quando non serviva più e tornava sereno dalla famiglia. Il giorno dopo, via, a rimettersi il costume come i supereroi. Al contrario, io non ne avevo uno mio da indossare per alleggerirmi, ed ero arrivato al punto da poter smaltire il peso solo liberando zavorre, come era diventato il mio matrimonio nel tempo, accudito con pari dosi di pressapochismo ed indifferenza. Mi chiesi come si stesse nei panni di quel meccanico.

Il vento portava l’odore di gomma di pneumatici e olio anche a distanza. Mi avvicinai infilando il naso all’interno: fresco e penombra come in ogni officina. Entrai, guardandomi intorno.

La tuta giaceva floscia contro la parete. La tentazione mi brulicò tra le mani, e in un attimo mi ritrovai ad indossarla, dopo aver infilato con cura prima un piede e poi l’altro. Tirai la zip fermo davanti allo specchio rotto, deluso: ero ancora troppo me stesso. Ispezionai i dintorni trovando un tubo striato di grasso nero e denso. Ci passai appena un dito sopra, e lo sfregai sulla pelle delle mani e su quella del viso. Da un lavandino a vista, bagnai appena le mani per passarle ancora sporche fra i capelli. Riaffacciandomi allo specchio, sorrisi: ora il camuffamento era più accurato, il costume calzava.

In un angolo in basso allo specchio, al lato della mia immagine riflessa, spuntava quella della Vespa 50, quella vista qualche ora prima fuori dall’officina. Mi avvicinai, e provai il cambio a motore spento, poi tolsi il cavalletto e la trascinai all’entrata. Proprio come avevo visto fare al mio sosia, mi inginocchiai di fronte al motore. Mi voltai verso la piazza e per un attimo mi aspettai quasi di trovare un altro me ad osservarmi dall’incrocio, giacca in mano e cravatta allentata.

Un telefono, dall’interno dell’officina, squillò. Era uno di quei vecchi telefoni, il cui suono, magari amplificato dalle pareti e dal silenzio, riusciva a trasmettere una minima dose di angoscia. Mi voltai, guardandomi intorno. Il trillo continuava, come fosse un allarme. E se fosse tornato il meccanico? Non avrei saputo come giustificare la mia presenza lì. Una folata di vento si alzò, e sentii freddo, nonostante la tuta. In quel momento una Fiat uno inchiodò di fronte all’officina. Mi ci volle un attimo a inquadrare quella macchina come la stessa da cui avevano urlato al meccanico poco prima che io entrassi nello studio dell’avvocato. Il telefono continuava a squillare, più forte.

Il guidatore non mi guardava nemmeno, ma aveva gli occhi in continua spola tra lo specchietto retrovisore e quelli laterali. Il passeggero invece era fisso su di me. Due occhiali scuri non riuscirono a nasconderne la determinazione e la rabbia, evidenti anche dal rigonfiamento del collo taurino sotto una barba crespa. Gli spari, invece, arrivarono all’improvviso, inaspettati, e ricoprirono tutto: il telefono e il suo squillare, l’intento di bilanciare il peso del corpo sulle due gambe per tirarmi su, ed il sorriso idiota con cui mi accingevo a spiegare che era tutto un errore. Di nuovo lo stridore sull’asfalto, e poi il silenzio. Accanto a me, steso in terra, solo il blu della vespa 50.

Giacomo DI Silvestro

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