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Nel mestiere di scrivere giornali, che è poi anche quello di chi scrive (nel senso del sottoscritto) sta forse per succedere quello che accadde due secoli fa, anno più anno meno, quando l'arrivo dell'illuminazione elettrica portò all'estinzione di coloro che - fino a poco prima - scendevano in strada per accendere e spegnere i lampioni a olio, al tramonto e all'alba.
Il mestiere del fotoreporter, per quanto sia attiguo, invece non si estinguerà mai. Perché è un mestiere che, in quanto tale, in realtà non esiste. Non è mai esistito.
Essere fotoreporter non è un mestiere, è cosa altra. È più una missione, che talvolta assomiglia a una suicide strike, è una disciplina, come quella di un samurai, è una consegna, di se stessi, all'interno di un momento storico.
Essere fotoreporter è la storia, è essere parte del suo materialismo con un segno, un'immagine che talvolta in stampa ci va macchiata di sangue, quando questo (non) mestiere va in guerra e, con l'iniziale maiuscola diventa il titolo di un libro, edito da Cairo e scritto a due mani da uno dei più titolati fotoreporter di guerra a livello internazionale, Gabriele Micalizzi, e un giornalista ben noto anche su queste pagine web, Moreno Pisto, brand & content manager di AutoMoto Network.
Era l'11 febbraio dello scorso anno, quando - da un tetto di Baghuz, nel Kurdistan - Micalizzi stava seguendo l'avanzata delle truppe curde contro l'Isis d'un tratto nell'obiettivo della sua fotocamera entra il buio: il lampo e il boato di un razzo gli hanno messo fuori uso due sensi. Ed è immobile, con un braccio a brandelli.
La primissima stesura di In guerra nasce, virtualmente, lì, nei minuti che lo separano dalla fine del suo sangue nelle vene all'arrivo dei soccorsi.
“La morte è proprio una rottura di palle” pensa. E non rimane che fumare una sigaretta che potrebbe essere anche l'ultima. Mentre il tabacco brucia il pensiero va alla moglie e alle figlie. E poi a ritroso, fino a 35 anni prima, ospedale Niguarda, nel giorno della sua nascita.
L'infanzia tra Cascina Gobba, via Padova e Crescenzago e quell'odore di periferia che non uscirà mai più dalle sue narici, assieme a quello delle sue Marlboro.
E poi i mille lavori, le prime foto alla News Press per cui lavora tuttora, il viaggio in Australia forse di sola andata. Il primo premio ma, soprattutto, la prima guerra, in Afghanistan, tra i talebani che stavano esaurendo tutte le forze per la conquista del potere.
Qualche tempo dopo, in Thailandia, un'epifania, che poi è anche un paradosso che diventa la regola numero uno mentre stai per scattare: “i sentimenti li devi mettere via anche se in realtà li hai, anche se in realtà non puoi non essere empatico con il soggetto che stai fotografando. Perché senza empatia non puoi fare foto coinvolgenti”, pensa e scrive il ticket Micalizzi-Pisto.
Dall'Asia alla Primavera Araba dei Mubarak, dei Ben Ali, dei Gheddafi il passo è breve. Come forti sono l'acredine dei fumogeni e il contrasto tra l'hotel dove alloggia la stampa, e gli scontri di piazza.
Sono anni duri, anni di rivoluzioni, un termine che attraversa trasversalmente tutto un mondo in sussulto. Micalizzi c'è: In guerra con il suo obiettivo e il suo mestiere non mestiere, la sua empatia non empatia. E una quantità di storie dalle quali “Non si può tornare indietro, no. Non posso fare rewind e mettermi dietro al muretto”.
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