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In questo articolo ci occupiamo dei sistemi di iniezione impiegati di serie sulle moto a quattro tempi.
Occorre comunque dire che i tecnici hanno lavorato molto anche su quelli destinati ai 2T, dove è sempre stato importante il problema dei consumi e in seguito è diventato addirittura fondamentale quello delle emissioni di scarico.
Sulle moto di serie i due tempi non si usano più (le uniche eccezioni sono alcuni fuoristrada di cilindrata contenuta e svariati “cinquantini”) fondamentalmente perché non più in grado di rispettare limiti sempre più severi in fatto di inquinanti emessi allo scarico.
O almeno, di farlo senza dovere ricorrere a soluzioni complesse e costose. Questo, unitamente ai consumi assai più alti di quelli dei quattro tempi e alla durata generalmente ben minore, ha portato a una perdita di interesse da parte dei costruttori.
Oggi i settori nei quali i 2T dominano o sono comunque molto diffusi sono quelli dei kart, dei fuoribordo e delle motoslitte.
Negli ultimi due sono stati realizzati interessanti sistemi di iniezione. Il primo ad essere pronto per la produzione di serie però è stato quello presentato nel 1973 dalla Motobecane sulla sua tricilindrica di 350 cm3. L’iniettore era collocato orizzontalmente, nella parete del cilindro, e la gestione era elettronica. Sono stati costruiti alcuni prototipi ma poi non se ne è fatto nulla.
Per i quattro tempi c’è voluto più tempo. In campo auto i sistemi di iniezione stavano iniziando a diffondersi progressivamente e senza dubbio mostravano la strada. Nel settore motociclistico però avevano a che fare con carburatori molto più evoluti (ed economici).
Nel 1980 la Kawasaki ha messo in produzione una versione della sua 1000 a quattro cilindri, rapidamente seguita dalla GPz 1100, dotata di un sistema di iniezione indiretta Hitachi analogo come schema complessivo al Bosch L-Jetronic.
La gestione era elettronica e la quantità di carburante iniettato variava in funzione del regime di rotazione e della quantità di aria aspirata, che veniva rilevata da un misuratore di portata.
In ciascun condotto di aspirazione, a valle della valvola del gas, era collocato un iniettore. Andava abbastanza bene a parte un certo ritardo nella risposta all’azionamento del gas. La casa è poi passata a un nuovo sistema alfa-numerico, ovvero basato fondamentalmente sull’apertura della valvola del gas e sul regime di rotazione. Denominato Kawasaki Digital Fuel Injection (DFI), questo sistema è stato utilizzato fino al 1988.
Nei primi anni Ottanta sono balzate alla ribalta, anche se non hanno poi avuto un apprezzabile successo commerciale, alcune moto sovralimentate mediante turbocompressore, tre delle quali sono state dotate di sistemi di iniezione.
La prima è stata la Honda CX 500 Turbo, entrata in produzione nel settembre del 1981. Per questa bicilindrica a V la casa ha sviluppato un sistema di iniezione elettronica molto avanzato che ha chiamato Computerized Fuel Injection (CFI).
La centralina elettronica di controllo, collegata a sensori tanto di temperatura (sia dell’acqua che dell’aria ambiente e aspirata) quanto di pressione, disponeva di due differenti mappature. Quella per le piccole aperture della valvola del gas era basata sulla velocità di rotazione e sulla densità dell’aria mentre quella per le grandi aperture era del tipo “alfa-numerico”; si basava quindi sul regime e sul grado di apertura della valvola stessa. La CX 500 Turbo si è poi evoluta nella 650, che ha continuato ad impiegare questo sistema di iniezione fino a quando è rimasta in produzione.
Anche la Suzuki e la Kawasaki turbo (quadricilindriche rispettivamente di 650 e di 750 cm3) erano dotate di iniezione elettronica, realizzata con uno schema simile a quello della Bosch L-Jetronic, del quale si è già detto.
Nel 1983 la BMW ha messo in produzione la sua K100 con motore bialbero a quattro cilindri raffreddato ad acqua dalla caratteristica architettura a sogliola, al quale due anni dopo ha affiancato la K75 tricilindrica.
Entrambe queste moto erano dotate di un sistema di iniezione direttamente “prelevato” dal settore auto. Si trattava del Bosch LE-Jetronic, versione evoluta del valido L-Jetronic.
Funzionava impeccabilmente per le due moto in questione ma non era certo il massimo della vita se si cercavano le massime prestazioni. Il misuratore di portata infatti penalizzava leggermente la respirazione, opponendo una resistenza al flusso che per quanto ridotta non era trascurabile. Insomma, OK per modelli stradali destinati al granturismo, ma non per le realizzazioni da corsa o supersportive.
Per queste ultime era meglio un sistema alfa-numerico, nel quale la quantità di aria che entra nei cilindri non viene misurata direttamente ma viene calcolata dalla centralina. Proprio questo sistema è stato adottato dalla Ducati quando ha realizzato la 851, capostipite di tutte le sue bicilindriche bialbero a quattro valvole raffreddate ad acqua. Il sistema, in questo caso sviluppato dalla Weber-Marelli, era già impiegato con ottimi risultati in campo auto e si è subito rivelato vincente anche sulle moto di Borgo Panigale.
Le mappe venivano fornite alla centralina sotto forma di schede di memoria sostituibili e riprogrammabili.
All’inizio degli anni Novanta tra le moto prodotte in gran serie solo le Ducati a quattro valvole e le BMW della serie K erano a iniezione (la impiegavano anche la Honda NR 750 del 1992 e la Yamaha GTS 1000 del 1993, ma si trattava di casi particolari). Per assistere alla definitiva affermazione su grande scala dell’iniezione è stato necessario attendere i primi anni Duemila.
I vantaggi offerti dalla iniezione, rispetto alla alimentazione a carburatore, possono essere sintetizzati come segue.
Tanto per cominciare non vi è la restrizione dovuta al diffusore (ovvero alla sezione ristretta) del carburatore. Poca roba, in campo moto, ma è sempre qualcosa. Ben più rilevante è la possibilità di controllare con precisione molto maggiore la dosatura della miscela e di modificare la quantità di carburante fornita al motore in funzione delle condizioni di impiego (ad esempio, al crescere della altitudine, o in presenza di sensibili variazioni di temperatura ambiente).
Questo fatto è addirittura essenziale ai fini del contenimento delle emissioni. In base alle informazioni fornite dalla sonda Lambda infatti la centralina più mantenere sempre il titolo della miscela all’interno della ristretta “finestra di dosatura” in corrispondenza della quale l’efficienza di conversione del catalizzatore è più elevata. Di grande importanza è il fatto che l’iniettore emette carburante assai più finemente “atomizzato”, rispetto a quanto può fare il carburatore (la differenza è particolarmente sensibile in presenza di ridotte velocità dell’aria nel condotto).
Proprio questo ha consentito l’impiego, nei motori moderni, di condotti di diametro addirittura impensabile fino a non molti anni fa. Con cilindrate unitarie di 500 cm3 si impiegano corpi farfallati con diametri compresi tra 48 e 62 mm, mentre con i carburatori il diametro del diffusore andava da 32 a 48 mm. Con cilindrate unitarie di 250 cm3 i corpi farfallati vanno da 38 a 46 mm, contro diametri dei carburatori che generalmente erano compresi tra 26 e 36 mm.
Un vantaggio non da poco…