La SF 750 Laverda compie cinquant’anni/2

Dopo la prima puntata, con la ricostruzione di come nacque la 750 nel 1970 e del successo che presto raggiunse, completiamo il racconto con le osservazioni dinamiche. E con le interviste a due testimoni della sua storia straordinaria
15 aprile 2020

La SF Laverda era pesante e alta di baricentro, chi la guida oggi è intimidito da quei difetti e da quell’altro che subito emerge: la forza esagerata che la leva della frizione chiede alle dita della mano sinistra. Eppure piaceva e mi piacque fin dai primi test. Del resto mi era piaciuta anche la S. La SF 750 era una moto rigida di sospensioni, però stabilissima sul veloce; e frenava forte con i nuovi tamburi a doppia camma, che erano anche modulabili e soprattutto non ti mollavano in discesa. All’epoca circolavano ancora tante moto che giù dai passi, dopo due chilometri impegnativi, già perdevano molta efficacia in frenata.

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Il motore spingeva forte anche ai bassi e suonava bene. Nell’insieme, la SF sui misti veloci era una favola, mentre sullo stretto voleva una guida fisica ma neanche troppo rispetto alle nostre abitudini: la V7 Guzzi, per dire, aveva il baricentro più basso ma era lunga e altrettanto pesante. Piuttosto, la Laverda era insidiosa da fermo. Quando ritirai la mia SF personale, nella primavera 1972, al primo rifornimento la moto si inclinò un po’ troppo di lato e mi cadde da fermo. Maledizione, feci un bel "gibollo" sul serbatoio rosso e per mesi dovetti tenerlo, restò lì a monito: mai perdere la verticale con la SF. E poi le vibrazioni. Ricordo che dal Belli, concessionario a Milano, quando la scaldavano da fermo sul cavalletto centrale la moto se ne andava in giro sul pavimento dell’officina.

Ci ho fatto tante belle sparate in giornata, sull’arco alpino e verso il mare. Niente limiti di velocità sulla Serravalle, che era una specie di pista (molto pericolosa) con poco traffico nei giorni feriali. La sicurezza era un optional, allora. Ma con la SF ho fatto anche delle belle vacanze, pure in coppia e con tutti i bagagli: aveva una buona abitabilità, rispetto alle concorrenti, e la sella era comoda e ospitale anche con il codino rialzato.

Una volta andai fino in Grecia, luglio 1973, tremilacinquecento chilometri circa. Con il manubrio in due pezzi che avevo montato la guida era un po’ troppo fisica, ma mi servì come allenamento per il Bol d’Or. Il problema fu che con il caldo, e con tutte quelle vibrazioni, soffrii di una fastidiosa infiammazione cutanea all’inguine. Era il famoso “breganzino” di cui molti soffrivano all’epoca sulle bicilindriche Laverda. Terapia indicata: una settimana sulla Honda CB 750 Four.

Dossena, Luciano Zen e Piero Laverda con la Chott 250
Dossena, Luciano Zen e Piero Laverda con la Chott 250

Piero Laverda: Luciano Zen fu la pedina chiave

Settimo di otto figli, nove anni meno del primogenito Massimo, Piero entrò in azienda dopo la laurea in ingegneria meccanica, quando la SF era già un successo. Oggi porta sulle pista le Laverda storiche, tutte fino alla V6 1000 del ‘78. La sua memoria è preziosa.

“La S era stata sviluppata solo per l’estero, e la SF fu la sua evoluzione. Ebbe successo perché non perdeva olio ed era affidabile, molto più delle inglesi. Era pesante e vibrava, ma aveva un avviamento elettrico impeccabile, sempre pronto. Il suo successo in realtà ci sorprese: non riuscimmo ad adeguare la produzione alla domanda, eravamo ancora nello stabilimento vecchio, in centro Breganze, e soltanto nella tarda primavera del ‘73 ci saremmo trasferiti nel nuovo impianto alla periferia del paese per l’ultima serie della 750, poi per la 1000 e infine, nel ’77, la 500”.

“Avevo solo 22 anni quando nasceva la SF, studiavo ingegneria meccanica e collaborai poco: sarei entrato più avanti seguendo le 24 Ore Endurance. Massimo era del ’38 e il maggiore dei fratelli, io sono del ’47 e il penultimo. Famiglia numerosa: sei femmine e noi due maschi. Massimo aveva grande ammirazione per l’industria tedesca, aveva un bel feeling con il direttore tecnico di BMW a Berlino, Laverda ha sempre collaborato con le case estere, Husqvarna, Zündapp e BMW: la fiducia era tale che ogni anno ci si scambiava i rispettivi nuovi modelli per i report e si dovevano evidenziare solo i lati negativi. Il telaio della BMW R 80 G/S è nato qui, con due prototipi realizzati per loro e curati dall’ingegner Todeschini”.

“Mio fratello Massimo era diventato direttore generale nel 1961, all’età di 23 anni, per la sua competenza tecnica e commerciale e la capacità di coinvolgere e motivare. Massimo poteva sembrarti timido, ma era solo un po’ prudente, poi si apriva molto, amava parlare dei suoi progetti, si divertiva e ci teneva tanto.

Luciano Zen fu la pedina chiave della 750. Era entrato da operaio in Laverda nel ’49 con mio padre Francesco, che era un grande progettista. Luciano era perito tecnico industriale, sarebbe diventato prima direttore di stabilimento e poi direttore tecnico.
Il motore 750 fu il primo progetto firmato da lui, ed era bravissimo nell'industrializzazione del prodotto; ha fatto ben 34 anni in Laverda, poi la pensione e la consulenza. Purtroppo è mancato presto. Com’era? Lo hai conosciuto, simpatico e disponibilissimo”.

Mugello test 1978. Da sinistra Alfieri, Piero Laverda e Brettoni
Mugello test 1978. Da sinistra Alfieri, Piero Laverda e Brettoni

Augusto Brettoni: vincemmo fin da subito

Quando si parla di Laverda SF occorre ascoltare Augusto Brettoni da Barberino Val d’Elsa. E’ stato lo sviluppatore, il pilota vincente, il direttore sportivo e tuttora è il restauratore. E lui ricorda volentieri, fin nei dettagli.

“Ero al Motogiro 1969 con la BSA 650 Spitfire MK IV, vincevo tutte le prove di velocità, quelle di regolarità non mi garbavano tanto. La squadra Laverda partecipava con la 650 GT e una sera, dopo la speciale di mezz’ora in pista a Imola, si alloggiava allo stesso hotel, il Campana, e Massimo Laverda volle conoscermi. Io ero amico del loro pilota Luciano Rizzitelli, però erano rivali e non mi garbava tanto dargli confidenza. Massimo mi disse che avrebbe voluto presto vedermi a Breganze”.

“In seguito capitò che, a gennaio, Rizzitelli andò a Roma con la prima S per un meeting e al ritorno si fermò da me: così provai la moto e mi piacque, pensai che finalmente avevo trovato una moto sportiva che andava forte. A marzo, Massimo mi chiamò a Breganze per la prima volta e cominciammo la collaborazione: avevo ventisette anni, 10.000 lire al giorno per le varie prove di collaudo e sviluppo, una moto per allenarsi e poi le corse. Andammo a fare la 24 Ore di Oss, in Olanda: eravamo in testa, perdemmo tempo nella sostituzione di un pistone e finimmo quarti. Alla guida lo stesso Massimo ed io, correvamo con gli pseudonimi per non essere squalificati dalla FIM, perché quella non era una gara federale”.

“In Laverda avevano pratica con le moto piccole, io avevo esperienza con quelle grosse. La prima 650, ricordo, aveva il cavalletto centrale che per issare la moto ti veniva l’ernia al disco, feci una modifica e restarono sorpresi. Rimanevo a Breganze anche una settimana, se occorreva: si facevano i collaudi con Rizzitelli, ma ci facevano partire separati, “se no fate le corse!” ci dicevano, però poi tornavamo sempre insieme, ci aspettavamo lontano dalla fabbrica”.

“La SF 750? Nel ’70 prima vincemmo a Oss, nella 24 Ore olandese in coppia con Dossena, poi in giugno a Monza vincemmo anche la prima 500 km con Sergio Angiolini, amico di Siena con cui condividevo le gare in salita. La moto la preparammo qui, nella mia officina di Barberino Val d’Elsa: come unica modifica importante allungai la finale, due denti in meno alla corona per far respirare il motore sui lunghi dritti di Monza”.

"Il difetto della SF era la calotta in ghisa, le temperature si alzavano tanto e non potevi aumentare il rapporto di compressione, anche in corsa. Nel ’71 avremmo potuto vincere il campionato endurance: primi a Barcellona e secondi al Bol d’Or, poi invece chissà perché non andammo alla terza prova di Truxton, e dopo quarantanove anni ancora mi brucia. Il motore era indistruttibile: revisionato da me in officina, una settimana dopo avere corso la 24 Ore di Le Mans andammo a correre a Vallelunga con quello e vincemmo la 500 km”.

“Con Massimo Laverda mi intendevo bene anche se non era di tante parole; era riservato, molto colto, e grande ammiratore delle moto tedesche. Luciano Zen era “rustego” come dicono in Veneto, ma affettuoso. Lo stimavo. Una brava persona. Non era ingegnere, era solo perito meccanico, ma di grande esperienza”.

Augusto Brettoni
Augusto Brettoni

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