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Riassumere in una manciata di modelli tutto ciò che di eccellente è stato fatto nel mondo dei gran premi della velocità non è facile. Ci siamo limitati al periodo che va dall'avvento del campionato del mondo, anno 1949, a oggi e abbiamo considerato solamente la top class, eppure la scelta ha finito per escludere alcune moto da corsa molto importanti sotto il profilo dei risultati. Per questo motivo nella selezione abbiamo preferito le moto che hanno coraggiosamente rivoluzionato gli schemi e quelle che hanno mostrato la strada da seguire.
La progenitrice delle quattro cilindri in linea moderne, prima da corsa e poi di serie, è stata una moto italiana e si deve a due giovani ingeneri romani: Carlo Gianini e Pietro Remor.
Nel 1927, nella Roma lontana dal nord industriale, i due realizzano la Opra: una moto da corsa che nel 1930 diventerà CNA e che infine, dopo aver ricevuto un compressore volumetrico e mutato il nome in Rondine, correrà la prima gara sul circuito di Tripoli, presso il lago salato di Mellaha, inaugurato da Italo Balbo nel 1933. Nel 1935, la moto italiana stabilirà il record di velocità sul chilometro con Piero Taruffi alla guida, alla velocità media di ben 244,3 km/h.
Quando la CNA venne nazionalizzata, nel 1936, il progetto Rondine fu ceduto alla Caproni Aeronautica. Che volle però disfarsene incaricando lo stesso Taruffi di trovare un compratore. Dopo che la francese Gnome et Rhône e la Moto Guzzi rifiutano l'offerta, fu la Gilera a rilevare i disegni e le sei moto complete, per un cifra in rapporto modesta.
Fu un bene, perché Ferruccio Gilera credette in quel progetto e volle investirvi. La Rondine già prima della seconda guerra mondiale iniziò a vincere in alcune gare internazionali, fino a conquistare il campionato europeo del 1939 con Dorino Serafini, davanti alla BMW Kompressor.
Nel dopoguerra, la Gilera 500 4 cilindri, ormai privata dal vietato compressore, vince sei titoli mondiali. Cioè da quando inizia il campionato del mondo velocità, nel 1949, e fino al 1957, quando la Gilera deciderà di ritirarsi dalle competizioni assieme a Guzzi e Mondial.
Il motore bialbero quattro cilindri in linea prosegue comunque il suo sviluppo con Pietro Remor, che già nel 1949 era passato alla MV Agusta assieme al fido tecnico Arturo Magni. Dal 1956 al 1965, la MV 500 conquista nove titoli mondiali di fila. Ne vincerà poi altri otto con la versione a tre cilindri.
Anche Honda e Benelli adottano lo schema in linea negli anni 60, ma non riescono a superare la MV Agusta. Gilera e MV conquisteranno alla fine 24 mondiali 500 dal 1950 al 1974.
Sebbene sia stata la MV a proporre per prima una 4 cilindri di serie (con la 600 presentata nel 1965), questo schema non andò oltre una produzione limitata e in totale assenza di costruttori europei.
Diverso l'approccio in Giappone, dove le fabbriche di moto compresero il potenziale di quel motore e, con la Honda CB 750 Four del 1969, la successiva Kawasaki Z1 e le varie Suzuki e Yamaha, misero le basi del loro successo internazionale.
Quanto questo schema motoristico sia ancora competitivo lo dimostrano attualmente i successi della Yamaha M1 in MotoGP e della Kawasaki ZX-10R in Superbike.
La straordinaria Guzzi 500 a 8 cilindri è probabilmente il più eclatante capolavoro motoristico nell'intera storia del motomondiale. Giulio Cesare Carcano, già autore delle Guzzi Condor, Dondolino e Gambalunga da corsa, cominciò a progettare la 500 V8 nel 1954, una volta resosi conto che per sconfiggere le Gilera e le MV Agusta a quattro cilindri serviva un motore più frazionato. Più frazionato dello stesso quadricilindrico Guzzi 500 con trasmissione ad albero, che aveva sostituito il monocilindrico bialbero di Mandello ma senza grandi risultati.
Il compattissimo V8 di 90° progettato da Carcano era disposto trasversalmente nel telaio che, da parte sua, serviva a contenere il lubrificante e il liquido di raffreddamento. Il compatto bialbero con distribuzione a ingranaggi ricorreva infatti non soltanto al raffreddamento a liquido, ma a tutte le migliori soluzioni costruttive disponibili all'epoca (vale la pena di ricordare che il solo albero motore costava l'equivalente di 40.000 euro attuali...).
Già nella sua prima versione, andata in pista nel 1955, il Guzzi V8 ruotava a ben 12.000 giri. Aveva il cambio a sei marce, ma in gara capitò di usarne soltanto quattro o cinque, vista l'erogazione piena del motore. Il problema non era tanto la potenza (72 cavalli, e una velocità di ben 275 orari grazie alla carenatura a campana), quanto la solidità della ciclistica e l'affidabilità meccanica in assenza di materiali sufficientemente evoluti.
La otto cilindri debuttò in gara nel 1956, ma la sua avventura terminò già l'anno dopo, ovvero quando la Moto Guzzi, assieme a Gilera e Mondial, firmò il famoso "patto di astensione" lasciando il campo libero alla MV, che continuò a correre in forma fintamente privata. In Guzzi si stoppò così lo sviluppo di questo straordinario V8, e dunque anche l'arrivo della sua versione da 350 cc.
Il frazionamento spinto venne in seguito sposato dalla Honda (dalle strepitose bialbero 50 bicilindrica e otto valvole del 1963, alla cinque cilindri 125 del 1965, passando per le sei cilindri 250 e 350 - in realtà 297 cc effettivi - del 1964), ma la Guzzi V8, pur avendo vinto poco, resta a tutt'oggi una delle espressioni più estreme del motociclismo da corsa.
E' la Yamaha YZR la moto più rappresentativa tra le 500 dell'era a due tempi. Lo è perché è stata la prima con questo schema a vincere un mondiale nella massima cilindrata, e poi perché è stata la più vincente in assoluto assieme alla Honda NSR. Ma procediamo con ordine.
A differenza di Honda, e al pari di Suzuki, Yamaha ha creduto da subito nel motore a due tempi, conquistando il suo titolo iridato nel 1964 con Phil Read nella classe 250. Nel 1967 arrivò la prima iride Yamaha in 125, grazie a Bill Ivy e al suo piccolo bolide a 4 cilindri, e nel 1974 fu Giacomo Agostini a conquistare per la casa dei tre diapasono il primo mondiale nella classe regina.
La bicilindrica 350 raffreddata ad aria, e maggiorata a 352 cc, è stata la prima moto di Iwata a competere nella classe 500: era il 1972, e la categoria era dominata dalla MV Agusta. Tuttavia quell'anno l'inglese Chas Mortimer riuscì a vincere il GP di Spagna.
Dal 1973 Yamaha fece sul serio, e con la OW20 creò la prima 500 a quattro cilindri in linea, con ammissione lamellare e raffreddamento a liquido. Era stata sviluppata assieme alla TZ 750, la portentosa quattro cilindri che sarà la moto imbattibile nella formula 750 e nelle gare del camionato AMA statunitense.
Nel GP del debutto per la OW20, in Francia, Jarno Saarinen ottenne la pole position, il giro veloce in gara e la vittoria. Saarinen si ripeté nella gara dopo, in Austria, ma poi accadde il terribile incidente di Monza, nel quale il fuoriclasse finlandese perse la vita. Yamaha si ritirò dalle competizioni, ma il seme della prima YZR 500 era stato lanciato.
Nel 1974 la moto venne affidata ad Agostini e Teuvo “Tepi” Lansivuori, amico fraterno di Jarno: due e una vittoria a testa rispettivamente e il titolo mondiale marche che entrava nella bacheca Yamaha. Sempre nel corso del 1974 faceva la sua comparsa la versione OW23, evoluta appositamente per la classe 500 e diversa dalla TZ 750. Grazie alla nuova progettazione, la moto era diventata più piccola, corta e leggera; cambiavano la trasmissione, l'ammissione e gli scarichi. Con la stessa moto, nel 1975, Agostini conquisterà quattro GP e il primo titolo mondiale 500 per una moto con motore a due tempi. Oltre che il primo titolo 500 per una casa giapponese. La quattro cilindri in linea rimase in gara fino alla stagione 1981 vincendo altri tre mondiali con Kenny Roberts: nel 1978, al debutto del giovane americano, e nei due anni successivi.
Poi Yamaha passò allo schema in quadrato (con il quale la Suzuki dominò nel biennio '81-'82), ma senza trovare la necessaria competitività per puntare al titolo, nonostante alcune vittorie di Roberts e Sheene. Tanto che a metà della stagione 1982 si passò allo schema V4, che resterà fino al 2002, quando la YZR verrà sostituita dalla M1 a 4 tempi, nata da 942 cc e presto maggiorata a 990.
Dal 1975 al 1992 la YZR 500 ha conquistato dieci titoli mondiali, come la stessa Honda NSR 500, che da parte sua iniziò a martellare a partire dal 1985. A esclusione dei quattro mondiali vinti dalla Suzuki (due con Sheene, uno con Lucchinelli e Uncini) sono state quindi le 500 Yamaha e Honda le protagoniste del motomondiale a 2T.
Poche moto da corsa come la Honda 500 NR hanno fatto discutere chi la considerò una grande sfida tecnica, e tecnologica, e chi invece la bollò come un grande abbaglio tecnico. La sua stessa sigla NR, che significava New Racing, venne tradotta in Nearly Ready, o Never Run, dai suoi detrattori. Risultati sportivi a parte – fatto tutt'altro che secondario visto che si parla di una moto da corsa – la NR 500 merita di essere ricordata per la sua genesi e l'indubbio coraggio nel cercare di competere con le più potenti e leggere due tempi.
Quando Honda decise il ritorno alle competizioni, dopo il ritiro del 1967, volle farlo con un motore a quattro tempi per restare fedele alla propria filosofia industriale, e mostrare la propria capacità d'innovazione. E questo nonostante le vincenti 500 a due tempi Yamaha e Suzuki fossero in evidente vantaggio di potenza, e peraltro non penalizzate nei consumi o nel peso. Fatto che avrebbe dato qualche possibilità in più alla NR.
Come se non bastasse, oltre alla cilindrata giocoforza equivalente, non era possibile superare il frazionamento di quattro cilindri imposto dal regolamento tecnico, e quindi non c'era proprio modo di competere ad armi pari. Tuttavia, sperimentando lo sperimentabile sull'intera moto oltre che sul motore, e investendo ingenti risorse, Honda pensò di poter vincere. Il suo quattro cilindri sfruttava pistoni - definiti impropriamente "ovali"- con due bielle ciascuno, e camere di combustione con otto valvole ciascuna: i progettisti, insomma, rincorrevano i vantaggi di un V8 pur con soli quattro cilindri, e con gli svantaggi di una termodinamica meno efficace rispetto ad un vero otto cilindri .
Il suo V4 di 100° progettato dal mitico Soichiro Irimajiri, il primo di una lunga serie arrivata fino a oggi, era comunque in grado di ruotare oltre i 20.000 giri, anche se l'obiettivo dei 130 cavalli non era stato raggiunto. Il telaio verteva su una struttura monoscocca in lamiera di alluminio che integrava la carenatura, il forcellone era in asse con il pignone, la forcella rovesciata aveva le molle esterne e i radiatori erano disposti lateralmente. Montava ruote componibili Comstar da 16 pollici, che riducevano il peso e soprattutto abbassavano il baricentro della moto.
Il debutto al GP di Gran Bretagna del 1979, con Mick Grant e Takazumi Katayama, fu un vero disastro, visto che la moto faticava anche solo ad avviarsi (all'epoca si partiva a spinta), mentre al GP di Francia la NR non si qualificò nemmeno. L'anno dopo con la versione X1 si cambiò rotta: telaio e forcella tradizionali (ovvero in tubi d'acciaio e steli "normali"), radiatore frontale e ruote da 18 pollici. Nel 1981 la V fra i cilindri scese a 90°, e la potenza arrivò a 130 cavalli, mentre qualche buon risultato venne dal campionato giapponese.
A Salisburgo, Katayama finì al tredicesimo posto, ma all'epoca i punti si davano solo fino alla decima posizione e a fine campionato la NR X2 non ottenne nemmeno un punticino.
Il programma triennale non aveva dunque dato i risultati sperati, e la Honda si trovò davanti a un bivio. La storia è nota: scelse il motore a due tempi, con il quale affrontò la stagione 1982 con l'iridato in carica Marco Lucchinelli, affiancato da un certo Freddie Spencer. Il quale, con la NS a tre cilindri, ottenne nel 1983 il primo titolo mondiale Honda nella classe 500.
Il progetto NR continuò a covare sotto la cenere, ritornò in cilindrata 750 per una partecipazione alla 24 Ore di Le Mans del 1987 e per equipaggiare l'ambiziosa e costosissima NR 750 di serie che fece il suo debutto al Tokyo Motor Show del 1989.
Se la Yamaha YZR ha rivoluzionato le 500 da gran premio, è stata la Honda RC211V a dettare legge quando si è trattato di affrontare la neonata categoria MotoGP.
Fu proprio la Casa di Tokyo a spingere per un rinnovamento della classe regina in favore del motore a quattro tempi, suo storico Credo. Le 500 a due tempi - era il ragionamento di fine anni Novanta - non avevano più relazione con il prodotto di serie, che per ragioni legate all'inquinamento era sempre più osteggiato. Veniva perciò a mancare l'opportunità di sperimentare e sviluppare nelle competizioni le nuove soluzioni motoristiche utili anche alle moto di normale produzione. O perlomeno alla loro immagine.
In questa sua volontà di cambiamento, Honda trovò appoggio nella Yamaha, e per essere certi che le nuove moto fossero competitive nei confronti delle potenti e leggere 500 a due tempi, con le quali inizialmente avrebbero dovuto confrontarsi in pista , venne concesso dai regolamenti tecnici un importante vantaggio: il raddoppio di cilindrata. Ben 990 cc contro il limite di 500. Inoltre veniva superata anche la soglia del frazionamento, e dal limite dei quattro cilindri delle 500, che rimaneva, si poteva salire fino ai sei nelle nuove moto da GP.
Comunque sia, mentre Yamaha affrontò il tema in maniera più tradizionale con un motore quattro cilindri in linea e una ciclistica più convenzionale, e mentre Suzuki e Ducati sarebbero arrivate in un secondo tempo con dei motori a V, per il campionato del 2002 Honda sfoderò l'incredibile RC211V. Si trattava di una "cinque cilindri" a V, la prima moto da corsa mai costruita con quella configurazione: estremamente compatta, era quella la moto deputata a raccogliere l'eredità super vincente della NSR 500 dei vari Doohan, Criville e Rossi.
La V fra i cilindri, tre anteriori e due posteriori, era di 75,5° e la potenza superava i 200 cavalli, maggiore quindi rispetto alle 500.
Il peso stabilito era di 145 kg a vuoto di benzina, inoltre il layout del motore favoriva una telaio raccolto, il posizionamento centrale del serbatoio benzina, e un forcellone piuttosto lungo. Il tutto a vantaggio delle caratteristiche di guida.
Nel suo primo anno di corse, la RC211V vinse 14 GP su 16 (undici grazie a Rossi), mentre i rimanenti due andarono alla Yamaha M1 pilotata da Max Biaggi.
L'anno dopo, il 2003, la RC211V venne evoluta nei controlli di aspirazione e scarico, nel freno motore, nella geometria della sospensione posteriore e nell'impianto di scarico, che passò da due a tre terminali. La potenza arrivava a 230 cv e Honda schierò tre moto ufficiali (Rossi, Hayden, Kato), una semi ufficiale (Gibernau) e tre "clienti" (Biaggi, Ukawa, Tamada). Risultato: 15 vittorie (9 firmate da Rossi) su 16 gare.
Il 2004 portò altri miglioramenti alla moto, come il controllo elettronico dell'acceleratore per gestire trazione e impennata, sospensione posteriore e forcellone, e impianto di scarico. La moto vinse il titolo costruttori, tuttavia la vittoria più importante, il Mondiale Piloti, andò alla Yamaha M1, sulla quale nel frattempo era arrivato Rossi, vincitore di nove GP.
La RC211V ha corso fino al 2006, vincendo all'ultima gara il titolo con Nicky Hayden, prima che il cambio regolamentare riducesse la cilindrata a 800 cc. Nei cinque campionati disputati, la cinque cilindri Honda ha vinto tre titoli piloti, quattro marche e il maggior numero di gare.
Nel 2007 la V5 passò il testimone alla nuova RC212V a quattro cilindri, che trovò però sulla sua strada l'ottima Ducati guidata dal formidabile Stoner. Sarà poi lo stesso asso australiano a portare alla vittoria mondiale la Honda 800 quando ne prenderà il manubrio, nel 2011. Fu quella l'ultima stagione per la RC212V, prima del ritorno alla cilindrata 999 con l'attuale RC213V. Ancora una quattro cilindri, come di fatto imponeva, e tuttoggi impone, il regolamento tecnico.