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Chi ha vissuto gli anni 90 da appassionato di moto sportive si farà venire la pelle d’oca tutte le volte che ricorda quel periodo. Se infatti è vero che con gli anni 80 si è vista una svolta netta, tecnica e prestazionale, nel panorama delle moto sportive, è altrettanto vero che un fermento creativo come quello del decennio successivo forse non ha paragone in tutta la storia del motociclismo.
Negli anni 90 si sono concentrate praticamente tutte le moto che hanno definito il panorama delle sportive come oggi lo conosciamo: dopo c’è stata solo evoluzione. Importante, fantascientifica, ma evoluzione. Qualcuno non sarà d’accordo, ma ci sentiamo di affermare senza troppo timore di smentita che gli anni 90 sono stati l’epoca d’oro delle supersportive moderne.
Coerentemente con le altre nostre selezioni, abbiamo deciso di limitare a cinque i modelli di questa nostra rassegna, ben sapendo di dover così fare torto a qualcuno e lasciare fuori qualche modello epocale ma… a nostro parere non così tanto. Perdonateci (o tirateci le orecchie nei commenti). Andiamo a cominciare, in rigoroso ordine cronologico.
Prima di lei le sportive giapponesi, a quattro cilindri per definizione, si fermavano a 750. Le 1000/1100, non utilizzate in gara se non in qualche misconosciuta serie nazionale, erano grosse, pesanti ed impacciate nel vero uso sportivo. Poi arrivò l’ingegner Baba, che nel 1991 decise di pensare fuori dagli schemi.
Avendo in casa la RC30 (e i piani della RC45) perché mai la supersportiva stradale Honda avrebbe dovuto limitarsi alla cilindrata stabilita dai regolamenti agonistici? Allora ecco una manciata di centimetri cubi in più, che trasformarono un modello che avrebbe dovuto nascere 750 – e che tale restò in termini di dimensioni e ciclistica – in una maxi che fece invecchiare in un lampo tutta la concorrenza.
Stilisticamente a metà fra le 250, 500 e F1/Superbike Honda dell’epoca, pulitissima nelle linee (evocativa nel bianco/rosso/blu HRC ma affascinantissima anche nel rigoroso nero/bronzo) la Fireblade cambiò profondamente l’estetica delle Supersportive dell’epoca. E si deve a lei – non a caso una Honda – se tutte le Case giapponesi cambiarono il modo di interpretare le maxi.
Ducati è un marchio storico ed ormai antico, ma il processo di trasformazione in quella Ducati come oggi la conosciamo è iniziato con il Desmoquattro della 851. Un modello che ha regalato tre Mondiali SBK alla Casa di Borgo Panigale, ma che è letteralmente scomparso quando, al salone di Milano del 1993, Claudio Castiglioni e Massimo Tamburini hanno tolto il velo alla 916.
A distanza di due anni dalla Honda CBR 900RR tutto cambiava un’altra volta. La 916 è stata a lungo la moto più bella del mondo, e se è bellissima ancora oggi – le successive 1098 e Panigale altro non sono se non evoluzioni stilistiche di quel modello epocale – è difficile mettere in discussione il valore estetico e tecnico della 916. E’ vero, lo stesso Tamburini ha dichiarato l’ispirazione ad RC30 ed NR750, da cui la 916 mutua moltissimi stilemi (dal forcellone monobraccio al codino, dagli scarichi sottosella al doppio faro anteriore) ma la Ducati era un’altra cosa. Perché una superbike così compatta, così pulita nelle linee, così aggressiva, così sexy prima non si era mai vista.
L’hanno imitata in tanti, nessuno è riuscito ad eguagliarla davvero, e non a caso è rimasta pressoché immutata nelle linee – 916, 996 o 998 che fosse – per quasi otto anni. Quasi tutte le sportive, in qualche modo, le devono qualcosa.
A metà decennio sembrava che per tenere il passo della Ducati 916 – al di fuori dei mezzi ufficiali – servissero una 1000 o una homologation special, tale e tanta era la superiorità prestazionale della bicilindrica bolognese. Poi arrivò Suzuki a ridefinire candidamente tutto con la GSX-R 750 del 1996.
Completamente rivista rispetto alle GSX-R precedenti, con il suo telaio perimetrale e un propulsore che così compatto non era mai stato, tornava ad essere leggera come e più della progenitrice. Le quote ciclistiche e la posizione di guida erano vicinissime se non proprio le stesse della RGV 500 di Kevin Schwantz, la potenza era disumana per una sette-e-mezzo – insomma, con 118 cavalli per 179 kg è stata l’ultima vera rivoluzione della categoria 750.
Veloce ma nervosa ed impegnativa per gli standard (e le gomme) dell’epoca, vinse in diverse categorie nazionali mettendosi dietro le presunte imprendibili bicilindriche bolognesi. Agli occhi di oggi è sgraziata e disarmonica, con quel codone sovradimensionato (ma aerodinamico) e masse tutte acquattate verso il basso, ma all’epoca era cattiva, minacciosa ed affilata. Ha fatto la storia.
Una nota testata britannica, all’epoca, commentò “non si era mai visto niente di tanto sexy da una Casa motociclistica giapponese”. Yamaha lasciò tutti di stucco, sul finire del 1997, con la prima YZF-R1. Prima delle rivali a seguire (dopo sei anni) la strada tracciata da Honda con la Fireblade, Yamaha fece le cose per bene. E travolse tutti con una moto, la YZF-R1, che ancora una volta faceva invecchiare tutte le rivali.
Leggerissima, corta a livelli stupefacenti – l’interasse di 1.395mm era un valore forse più incredibile del già incredibile rapporto peso/potenza – è stata la prima quadricilindrica giapponese ad applicare alcuni dei principi tecnici ed estetici che troviamo ancora sulle sportive odierne: cambio spostato sopra il carter per accorciare il blocco motore e forcellone lungo per privilegiare la trazione, codino altissimo e sfuggente e un cupolino che così piccolo e rastremato non si era mai visto.
A cementare la sua leggenda contribuì una guida da uomini veri: corta, leggera (177kg a secco) e potente (139 cavalli) risultava nervosissima quando le si voleva provare a tirare il collo. Soprattutto perché, nonostante i dati rilevati risultassero un filo meno lusinghieri di quelli dichiarati, il quattro cilindri a venti valvole aveva una terrificante “castagna” ai medi che fece la fortuna dei fabbricanti di ammortizzatori di sterzo. A tuttora una moto leggendaria come a poche sportive giapponesi accade.
Fu l’unica moto capace di contendere (anzi, rubare) la ribalta alla Yamaha YZF-R1, con cui condivise i riflettori del Salone di Milano 1997. La MV Agusta F4 Serie Oro, secondo capolavoro di Massimo Tamburini, causò una strage di superlativi su tutte le testate specialistiche dell’epoca – un periodo in cui il Web era in gran parte di là da venire.
Sportivissima, le mancava un po’ di cavalleria perché il suo propulsore pagava una gestazione travagliata e arrivata in ritardo – a cavallo della cessione Ducati a TPG – dopo la collaborazione con Ferrari, ma la ciclistica ridefinì buona parte dei riferimenti della categoria. Freni e sospensioni così non si erano mai visti su una moto stradale, ma soprattutto una moto bella così non si vedeva dai tempi… della 916, di cui si riconoscono diversi tratti somatici come in due fratelli nati ad anni di distanza.
Come per la parente, ha dato origine ad una stirpe addirittura più longeva, perché con qualche ritocco la F4 è arrivata fino ad oggi, con la splendida RC che verrà sostituita a breve. Per molti resta la moto più bella del mondo. Sicuramente, quantomeno a livello estetico, ben poche delle sue rivali sono invecchiate meglio.
Come abbiamo detto all’inizio, qualcuna l’abbiamo dovuta lasciare fuori. Si tratta di modelli molto importanti per i motivi più disparati, ma che non raggiungono le vette d’importanza storica di quelli che abbiamo incluso nella nostra cinquina. Ci scusino quindi i fan della Kawasaki ZXR, modello con cui Scott Russell ha regalato il primo titolo iridato Superbike alla Casa di Akashi, ma soprattutto ci scusi Honda che, con la RVF 750/RC45 ha creato quella che molti ritengono a tutt’oggi la Homologation Special tecnicamente più raffinata di sempre. E che dire della Yamaha YZF-R7, o dell’Aprilia RSV Mille, il modello che ha segnato la definitiva maturazione della Casa di Noale come costruttore di moto “vere”?
Ve l’avevamo detto. Gli anni 90 sono stati unici, e forse saranno irripetibili per gli amanti delle sportive.