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Di sicuro il suo motore è il più sollecitato, tra quelli impegnati in Superbike, come dimostrano la velocità media del pistone e la potenza specifica areale.
Non è il più potente (almeno sulla carta), non ha le valvole più grandi né il rapporto C/D più favorevole. Eppure la Kawasaki 1000 quadricilindrica dopo avere dominato per anni nel mondiale continua ad essere più che competitiva, nonostante una concorrenza sempre più temibile ed evoluta.
Merito di una ciclistica straordinaria e perfettamente “accordata” con un motore che ha raggiunto un livello di sviluppo straordinario (a ciò naturalmente si aggiungono il gran manico del suo pilota di punta e una squadra efficientissima). La guidabilità e la sfruttabilità, più ancora della potenza di punta, sembrano essere le parole chiave dietro a questi anni di successi.
Prima di cominciare la nostra sintesi occorre segnalare che la Kawasaki ha sempre adottato una doppia designazione per i suoi modelli. Alla sigla commerciale, cioè quella alla quale si fa più frequentemente riferimento, si aggiunge infatti il “codice modello”, ovvero la designazione interna della casa.
Parlare della GPz 900 R o della ZX 900 A è esattamente la stessa cosa, la GPZ 600 R costruita dal 1985 al 1989 è nota anche come ZX 600 A e via dicendo.
Ciò potrebbe in qualche caso causare confusione. Pure le sigle sono state scritte talvolta in maniera diversa. La 900, la famosa prima Ninja, era indicata come GPz ma in seguito per gli altri modelli tale sigla è diventata GPZ (tutto maiuscolo).
In questa sede si fa riferimento alla sigla commerciale ma poiché si parla dello sviluppo delle tre grandi famiglie di quadricilindrici di Akashi (600, 750 e 900/1000) in effetti per individuare i diversi motori quasi sempre potrebbero bastare l’anno e la cilindrata.
Dopo essersi imposta alla attenzione internazionale con le sue tricilindriche a due tempi dalle prestazioni entusiasmanti e dal carattere spesso quasi ingestibile, la Kawasaki ha stupito il mondo con la 900 Z1 presentata verso la fine del 1972 ed entrata in produzione l’anno seguente.
Questo modello ha di fatto aperto l’era delle maximoto con cilindrata superiore alla classica 750 e al tempo stesso quella dei motori con distribuzione bialbero.
La famosa Honda CB 750 Four è apparsa subito ridimensionata, in quanto a prestazioni. La Z1 aveva misure caratteristiche perfettamente quadre (66 x 66 mm) e la catena di distribuzione collocata centralmente, soluzione che per lungo tempo è stata standard per i policilindrici. Le due valvole di ogni cilindro venivano azionate dagli eccentrici per mezzo di punterie a bicchiere ed erano inclinate tra loro di 63°; quella di aspirazione aveva un diametro di 36 mm e quella di scarico di 30 mm.
Nel blocco cilindri erano montate con interferenza canne in ghisa dotate di bordino superiore. L’albero a gomiti era di tipo composito (nove parti unite per forzamento alla pressa), lavorava su cuscinetti a rotolamento e poggiava su sei supporti di banco.
La trasmissione primaria era a ingranaggi, con quello conduttore ricavato direttamente in un volantino dell’albero a gomiti. La potenza era di 82 CV a 8500 giri/min. Nel 1978 l’alesaggio è stato portato a 70 mm, e la cilindrata è cresciuta fino a 1.016 cm3.
Queste moto hanno avuto una vita lunga e fortunata, vincendo moltissimo sia nelle gare di endurance (nelle quali per diverso tempo Godier e Genoud sono stati pressoché imbattibili) che nei campionati americani, nei quali sono state portate al successo da piloti del calibro di Eddie Lawson.
Verso la fine del 1983 la Kawasaki ha nuovamente stupito il mondo presentando la GPz 900 R, prima quadricilindrica bialbero di serie con raffreddamento ad acqua, catena di distribuzione collocata lateralmente e albero ausiliario di equilibratura.
Le quattro valvole di ogni cilindro giacevano su due piani inclinati tra loro di 35° e avevano un diametro di 29 mm alla aspirazione e 25 mm allo scarico. Ad azionarle provvedevano bilancieri a dito sdoppiati, sui quali agivano gli eccentrici dei due alberi a camme.
Nel blocco cilindri le canne in ghisa, dotate di appoggio superiore, erano riportate in umido. Questo motore aveva un alesaggio di 72,5 mm e una corsa di 55 mm. L’albero a gomiti era forgiato in un sol pezzo, aveva cinque perni di banco e lavorava interamente su bronzine. La potenza veniva indicata in 115 cavalli a 9500 giri/min.
Dietro il blocco cilindri, nella parte superiore del basamento, era collocato il generatore di corrente, collegato alla estremità destra dell’albero a gomiti da una corta catena Morse.
I tecnici avevano lavorato a lungo alla progettazione e allo sviluppo del quadricilindrico della GPz, che rompeva nettamente con gli schemi costruttivi impiegati in precedenza dalla casa giapponese e hanno ripreso diverse soluzioni anche per i modelli successivi.
La 900 ha avuto immediatamente un grande successo ed è rimasta in produzione per diversi anni.
Un paio di anni dopo la Kawasaki ha presentato la GPZ 1000 RX, realizzata con identico schema, dalla quale ha successivamente sviluppato la prima ZX-10, apparsa nel 1988. Quest’ultima disponeva di 137 cavalli a 10.000 giri/min, forniti da un motore avente un alesaggio di 74 mm e una corsa di 58 mm e dotato di bilancieri a dito singoli e di valvole con un diametro di 29,5 mm alla aspirazione e di 25,5 mm allo scarico.
Dopo l’istituzione del Campionato Mondiale Superbike, che prevedeva bicilindrici fino a 1000 cm3 e quadricilindrici fino a 750 cm3, la Kawasaki ha riservato particolari attenzioni proprio a questa seconda classe, che stava diventando di grande importanza anche sotto l’aspetto commerciale, sviluppando modelli via via più performanti e versioni pensate proprio per l’impiego agonistico.
Dopo la sfortunata GPz 750 (realizzata con schema identico a quello della 900) la successiva quadricilindrica a 16 valvole con raffreddamento ad acqua di questa cilindrata è stata la GPX 750, entrata in produzione nel 1987. In questo caso lo schema costruttivo adottato era nettamente diverso, dato che la catena di distribuzione era collocata al centro dell’albero a gomiti, ove si trovava anche la catena Morse che comandava l’alternatore, collocato dietro il blocco cilindri. L’angolo tra le valvole, che avevano un diametro di 26,5 mm alla aspirazione e di 22,5 mm allo scarico e venivano azionati da bilancieri a dito singoli, era di 30°. Le bronzine di banco erano cinque.
La potenza di questo motore, che aveva un alesaggio di 68 mm e una corsa di 51,5 mm, era di 106 CV a 10500 giri/min. Nel 1988 da questa moto è stata derivata la ZX 750 H, dotata di un motore identico, a parte la nuova testa con punterie a bicchiere al posto dei bilancieri a dito.