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Diversi costruttori hanno legato indissolubilmente il loro nome a schemi costruttivi o a soluzioni particolari, che hanno caratterizzato i loro modelli più celebri, se non proprio tutta la loro produzione. Sono stati cioè fedeli per lungo tempo a determinate soluzioni, che impartivano una forte personalità ai loro motori, al punto che sono diventate addirittura una specie di “marchio di fabbrica”. In passato dire monocilindrico orizzontale con volano esterno equivaleva a dire Guzzi. Proprio come, dagli anni Settanta ad oggi, parlare di bicilindrici a V trasversale… E chi può pensare a un motore con due cilindri a V stretto longitudinale raffreddato ad aria senza che gli venga in mente l’Harley-Davidson? O a un motore desmodromico senza immediatamente pensare a una Ducati?
Ecco una prima rapida sintesi di alcuni casi particolarmente rimarchevoli. Ne seguiranno altri.
Tra gli anni Dieci e gli anni Trenta del Novecento, l’inglese Scott ha per lungo tempo costruito ottime moto con motore a due tempi a due cilindri paralleli, fortemente inclinati in avanti e con raffreddamento ad acqua. Questo le rendeva immediatamente riconoscibili tra tutta la produzione mondiale. Ma c’era un’altra soluzione tecnica davvero unica nel loro bicilindrico, anche se non era visibile dall’esterno: l’albero a gomiti aveva le manovelle a sbalzo. L’idea di base era quella di mettere la trasmissione primaria al centro, tra i due supporti di banco, cosa che consentiva una riduzione dei costi di fabbricazione e rendeva possibile una maggiore compattezza (i due cuscinetti di banco laterali venivano eliminati).
Pure la Comet, una bicilindrica a quattro tempi monoalbero costruita a Bologna attorno alla metà degli anni Cinquanta su progetto del famoso tecnico Alfonso Drusiani, adottava questa soluzione. In posizione centrale, oltre alla primaria, c’era il comando della distribuzione (affidato a una catena a rulli).
Fin dall’inizio della sua storia, la Guzzi ha costruito moto a cilindro orizzontale (leggermente disassato) con un grosso volano esterno, posto sul lato sinistro, e con la lubrificazione a carter secco. Soluzioni d’avanguardia, per i tempi, erano la trasmissione primaria a ingranaggi e il cambio in blocco. Per i suoi monocilindrici di serie di 500 cm3, nei quali spiccavano anche le misure caratteristiche nettamente superquadre (88 x 82 mm), la casa di Mandello del Lario è rimasta fedele a queste scelte fino alla metà degli anni Cinquanta.
Nel 1965 è stata presentata la V7, con motore bicilindrico con asse di rotazione dell’albero a gomito longitudinale e trasmissione finale ad albero; questa moto, che aveva una cilindrata di 700 cm3, ottenuta con un alesaggio di 80 mm e una corsa di 70 mm, è stata disponibile al pubblico solo un paio di anni dopo. L’architettura a V di 90° consentiva una buona equilibratura, e la disposizione trasversale dei cilindri assicurava un eccellente raffreddamento. L’albero a gomito in un sol pezzo lavorava interamente su bronzine. La distribuzione era ad aste e bilancieri, con albero a camme piazzato nella parte superiore del basamento, al centro della V formata dai due cilindri. Per i suoi modelli di media e grossa cilindrata, da allora la casa di Mandello del Lario non ha più abbandonato questo schema costruttivo, che in breve tempo è diventato praticamente sinonimo di Moto Guzzi.
Addirittura eclatante è il caso della Rumi, i cui modelli sono sempre stati azionati da un motore bicilindrico in linea frontemarcia a due tempi dal disegno e dalle soluzioni assolutamente particolari. A parte il fatto che per lungo tempo è stato l’unico 125 bicilindrico della intera produzione mondiale, aveva la frizione montata sulla estremità dell’albero a gomiti e impiegava pistoni con deflettore, quando ormai tutti utilizzavano quelli con cielo piano. Il basamento era in due parti che si univano secondo un piano orizzontale, e questa era una soluzione assolutamente d’avanguardia. Il motore aveva un alesaggio di 42 mm e una corsa di 45 mm. I cilindri nella maggior parte dei casi erano in ghisa; solo alcuni degli ultimi modelli di prestazioni più elevate hanno impiegato quelli in lega di alluminio con canna cromata.
La casa bergamasca ha anche presentato dei modelli con motori a quattro tempi, che sono però rimasti allo stadio di prototipo. Le moto costruite in serie, dal 1950 al 1962, erano tutte dotate dallo stesso motore a due tempi con due cilindri orizzontali, realizzato in più versioni, anche con cilindrata maggiore di quella iniziale (175 e 200).
I motori a due tempi a cilindro sdoppiato, apparsi negli anni Dieci del Novecento, sono stati prodotti in più versioni. I costruttori che li hanno adottati sono stati pochi, ma alcune delle loro moto sono rimaste giustamente famose. Basti ricordare la Garelli 350 (costruita dal 1919 al 1935 in poco più di duemila esemplari), le straordinarie DKW da competizione degli anni Trenta e le tedesche TWN degli anni Cinquanta. La casa che più di tutti ha legato il suo nome a motori di questo genere è stata però l’austriaca Puch che, dopo una prima versione con biella a forchetta, per ben oltre trent’anni ha utilizzato un razionale sistema a biella madre e bielletta. Tra il 1953 e il 1970 ha costruito più di 38.000 esemplari della 250 SGS dotata di un motore realizzato con questo schema (e più numerose ancora sono state le 175). In Italia, negli anni Cinquanta, ha impiegato i Puch la Ganna, e ha costruito motori analoghi anche la Iso.