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Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo: forse nessuno come lui possiede competenze, conoscenze e memorie sulla Ducati e su quanto ruota intorno all’azienda bolognese. D’altro canto, in trent’anni di fedele servizio, Livio Lodi ha accumulato un bagaglio quasi inesauribile di esperienze legate a doppio filo con la “rossa” bolognese: l’uomo giusto al posto giusto, quindi, la persona ideale per gestire quello che ormai è più di un’appendice alla fabbrica, ma ne è diventato quasi il contraltare per tutti gli appassionati.
Parliamo, l’avrete capito, del Museo Ducati, che per qualche giorno ha lasciato con una rappresentanza di dodici modelli la storica sede di Borgo Panigale per una breve tournèe nella Capitale, ospite di Ducati Roma.
E' qui che abbiamo incontrato Livio, per una piacevolissima chiacchierata a base di telai a traliccio, distribuzione desmo e non solo.
Curatore di un Museo: si pensa subito ad un ufficio polveroso, a scartoffie da esaminare, a stanze vuote di visitatori. Ma è una descrizione giusta per il Museo Ducati, o dobbiamo in qualche modo resettare la prospettiva?
«La sfida è affascinante: trasformare una materia che molti considerano quasi inutile come la storia in un racconto vivo e coinvolgente. In questo, il mio lavoro è simile a quello di un archeologo: ritrovo frammenti di storia che vanno collocati in una cronologia industriale, cercando anche di mettere in luce quali motivazioni si nascondano dietro ogni modello. Sono impegnato soprattutto nel catturare le fonti originali di questa esperienza, come gli ex-operai dell’azienda o i piloti che hanno corso con Ducati: il Museo racconta quindi anche una storia "unplugged", fatta di testimonianze dirette e contestualizzate. Non è stato facile, visto che per anni Ducati non è stata attenta a conservare la sua storia: quanti documenti sono stati buttati al macero, quanto oblio c’è stato! Ma con pazienza, ricostruendo pezzo dopo pezzo tutto l'intricato mosaico, oggi possiamo raccontare la nostra storia. Uno sforzo premiato: abbiamo visitatori di ogni fascia d’età, dai bambini delle scuole elementari ai pensionati che tornano giovani guardando le moto su cui sono stati felici. Grazie a questo siamo diventati il secondo Museo più visitato a Bologna, città dove certo non mancano opere d’arte e bellezze architettoniche».
Ci può raccontare la sua storia in Ducati?
«Era scritto nelle cose che dovessi far parte della famiglia Ducati. Vivo a Borgo Panigale, a meno di un chilometro dalla fabbrica, e mio padre, come medico, è stato a lungo consulente esterno dell’azienda. Con lui, già da bambino, iniziai a prendere confidenza con Ducati e, ormai grandicello, nell'aprile del 1987 in maniera quasi ovvia varcai i cancelli da dipendente, assunto come operaio alla catena di montaggio della Paso. Il mio primo incarico riguardava il controllo del fissaggio della carenatura. Dopo circa un anno di tirocinio sulle linee di F1, Indiana, Paso e le primissime 851, a febbraio 1988 fui trasferito al Controllo di Gestione, dove sono rimasto per quasi dieci anni, occupandomi di contabilità relativa allo sviluppo di nuovi progetti e al calcolo dei rendimenti e delle efficienze dei vari reparti. La svolta ci fu nel 1998, quando, grazie alla conoscenza di inglese e francese e per merito della mia passione per la storia, Federico Minoli mi assegnò al Museo Ducati come assistente dell’allora responsabile, Marco Montemaggi. Un paio di stagioni di apprendistato e poi, nel dicembre 2001, fui nominato Curatore del Museo: da quel giorno fino ad oggi sono la persona incaricata in Ducati di raccogliere, ordinare e conservare tutto ciò che in azienda si è prodotto dal 1926».
Come responsabile del Museo, ci sono moto alle quali è più affezionato? E quale manca alla collezione per farla felice?
«Sotto il profilo professionale, ci sono stati alcuni “colpi” di cui vado fiero, come l’aver riportato a Bologna l'Apollo o il restauro della 250 di Mike Hailwood; per tutti i modelli del Museo nutro lo stesso rispetto, ed amo indistintamente tutte le moto esposte, dalle più famose a quelle meno conosciute. Ma non posso negare un legame speciale con la Paso, la prima Ducati su cui ho messo le mani quand’ero ancora un operaio apprendista. Ovviamente il mio lavoro non si ferma mai: mancano la 125 Gran Prix Desmo del 1955 progettata da Taglioni, la prima Ducati da competizione con distribuzione desmodromica, e vorrei anche trovare una 750 TT1; inoltre, c’è da completare il lavoro sull’archivio dell’azienda, di documenti ed immagini».
Nei trent’anni in Ducati ha avuto modo di conoscere tanti personaggi importanti: chi le è rimasto più impresso?
«Direi senz’altro Fabio Taglioni, che per buona sorte ho avuto modo di conoscere e frequentare anche fuori dal luogo di lavoro, visto che abitavamo a poca distanza. Anzi, il ricordo più dolce e struggente è proprio per i sabato pomeriggio in cui passavo a casa sua con la scusa di prendere un caffè, ed invece era occasione preziosa per condividerne i pensieri, le idee geniali, i momenti di relax comunque creativo. E sono molto legato anche a Federico Minoli: se faccio un bel mestiere, lo devo senz’altro a lui ed alla sua volontà di portarmi all’interno del Museo».
Cosa rappresenta Ducati, oggi?
«Un’azienda con novanta anni di storia è un patrimonio collettivo, che va oltre le pur importanti vicende industriali: nasce in un luogo particolare e la sua evoluzione è lo specchio di quelle di un’intera nazione. A iniziare dalla location: da un lato l’Emilia, a maggiore vocazione automobilistica, da quest’altra parte la Romagna, più orientata alle due ruote, in ogni caso feconde non solo di aziende che ancora oggi rappresentano il meglio dell'industria meccanica, ma anche di piloti capaci di imprese memorabili. Su questo, si innesta un’altra storia: quella della via Emilia come crocevia di popoli e razze, traffici e commerci, quindi crogiolo per scoperte ed invenzioni. Guglielmo Marconi era bolognese, e non a caso Ducati nasce per produrre tecnologia d’alto livello per le trasmissioni radio. Ma qui da noi è soprattutto il pulsare di un motore a scoppio ad essere importante, e quindi era ovvio che si arrivasse a produrre moto sempre rincorrendo il primato tecnico. Quello che oggi è un tratto distintivo di Ducati, ha sempre fatto parte del nostro bagaglio».