Per fornire le prestazioni più elevate, un motore deve girare forte e avere fasi utili molto “vigorose”. Pertanto, deve respirare bene - ossia avere un ottimo rendimento volumetrico - e utilizzare al meglio l’energia termica sviluppata dalla combustione della miscela aria-carburante: cioè avere un elevato rendimento termico. Per quanto riguarda la seconda voce, sono fondamentali il rapporto di compressione e la geometria della camera di combustione. A sua volta, quest’ultima è legata alla disposizione delle valvole.
Ormai da tempo sono praticamente scomparsi dalla scena i motori nei quali si impiegavano due valvole parallele, generalmente azionate da aste e bilancieri. In questo caso la camera di combustione poteva essere a “scatola di sardine” o discoidale, oppure, se ricavata nel cielo del pistone, denominata Heron, in onore del grande tecnico che la propose per primo. Impiegavano camere del primo tipo motori come i classici monocilindrici Gilera (124, Arcore) e Morini (Corsaro) di una volta, nati da progetti di impostazione fondamentalmente utilitaria. Negli anni Settanta e Ottanta hanno adottato camere Heron i bicilindrici Morini (3 ½, 500) e Guzzi della serie “piccola” (V 35 e V 50).
Motori a due valvole per cilindro
Nei motori a due valvole per cilindro, le camere di combustione che hanno dominato la scena per decenni (e lo fanno ancora!) sono quelle emisferiche. I vantaggi offerti da questa soluzione sono due, entrambi molto importanti. In primo luogo, la forma emisferica è quella che consente di ottenere un minor rapporto superficie-volume, pertanto è la più conveniente per quanto riguarda il rendimento termico. Sono infatti minori le perdite di calore, di conseguenza risulta maggiore la quantità di energia termica che può essere convertita in energia meccanica, a parità di rapporto di compressione. Inoltre, dato che le valvole sono inclinate, i loro funghi possono essere di maggiori dimensioni, ferma restando la misura dell’alesaggio. E anche i condotti (a interessarci ovviamente è quello di aspirazione) possono avere un andamento più favorevole, con una minore curvatura nella parte terminale, a ridosso della valvola. Dunque, la soluzione è vantaggiosa anche a livello di rendimento volumetrico.
E qui entra in gioco l’angolo incluso tra le due valvole. Mano a mano che esso aumenta diventa possibile installare valvole più grandi: questo ha portato in passato all’adozione di angoli molto grandi, in particolare nei motori da corsa. E in tal caso c’era una seria controindicazione: per ottenere un rapporto di compressione molto elevato occorreva montare un pistone col cielo fortemente bombato. Di conseguenza aumentava il peso del pistone stesso (che era anche soggetto a maggiori sollecitazioni termiche) e la forma della camera peggiorava, avvicinandosi a quella che potremmo definire a “scorza d’arancia”. In questo modo il rendimento termico diminuiva e l’avanzamento del fronte di fiamma, durante la combustione, era tutt’altro che agevole e “lineare”. È per questa ragione che in diversi motori di una volta poteva risultare vantaggiosa l’adozione della doppia accensione, anche se l’alesaggio era modesto.
Nella MV 500 a quattro cilindri da GP della prima metà anni Sessanta, l’angolo tra le valvole era di 90°. Nei Ducati monocilindrici e bicilindrici monoalbero con comando della distribuzione ad alberello e coppie coniche era invece di 80°. Nei motori a due valvole con camera emisferica oggi in produzione si va in genere (le eccezioni sono pochissime, anche se interessanti) da 40° a 60°. Nelle teste di questo tipo la candela non è in posizione centrale, dato che ciò impedirebbe di impiegare valvole di dimensioni cospicue (come d’obbligo nei motori di prestazioni per lo meno discrete) ma risulta spostata da un lato.
Motori a quattro valvole per cilindro
Le teste a quattro valvole per cilindro si sono imposte, per quanto riguarda i motori da competizione, negli anni Sessanta, per merito degli straordinari policilindrici Honda da GP. La soluzione non era certo inedita (basta pensare alle Rudge degli anni Trenta), ma è stata la Casa giapponese a lanciarla definitivamente. I vantaggi erano notevoli: quattro valvole erano più piccole di due, per un dato alesaggio, e quindi ognuna di esse aveva un peso ridotto, il che consentiva di raggiungere regimi di rotazione più elevati (minori masse in moto alterno). Inoltre, si potevano avere maggiori sezioni complessive di passaggio a disposizione dei gas, che venivano ottenute con alzate minori: un vantaggio non da poco! Valvole di scarico di minori dimensioni, inoltre, risultavano meno sollecitate termicamente. La camera aveva una forma a tetto, con due valvole da un lato e due dall’altro, e la candela era nella posizione ideale, ossia proprio al centro. All’atto pratico, il rendimento risultava analogo a quello di una camera emisferica.
Anche sulle moto di serie questa soluzione è stata rilanciata dalla Honda, sia pure in sordina. Invece di impiegarla su un modello sportivo, infatti, inizialmente la grande Casa giapponese la ha utilizzata su una monocilindrica tipo scrambler, la XL 250, a partire dal 1972. La Yamaha ha dotato di una testa bialbero a quattro valvole per cilindro una 500 che per la verità non ha lasciato una grande traccia nella storia del motociclismo: la TX bicilindrica apparsa nel 1973. Ma anche la Laverda adottò questa soluzione sulla sua 500 bicilindrica, entrata in produzione nel 1977 e realizzata anche in una versione di 350 cm3. I grandi costruttori giapponesi hanno iniziato a proporre con decisione modelli plurifrazionati di alte prestazioni a quattro valvole per cilindro solo nel periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo.
Nei primi motori che impiegavano questo tipo di distribuzione in genere l’angolo tra i due piani sui quali giacevano gli steli delle quattro valvole era considerevole, e questo sia in quanto le scelte dei tecnici erano fortemente influenzate dalle realizzazioni precedenti (a due valvole) sia per il fatto che il raffreddamento era ad aria e la zona centrale della testa risultava critica in quanto a refrigerazione. In seguito, in misura fondamentale grazie al passaggio al raffreddamento ad acqua, l’angolo in questione è stato progressivamente ridotto.
Come ovvio (bastano semplici considerazioni geometriche!) una riduzione di questo angolo determina una diminuzione del diametro delle valvole, per un dato alesaggio, ma la cosa è ampiamente compensata dal più favorevole andamento dei condotti e dalla migliore geometria della camera. Quest’ultima ha un minor rapporto superficie-volume e consente di raggiungere rapporti di compressione molto elevati pur adottando pistoni con cielo solo lievemente bombato, o addirittura piano (eccezion fatta per gli incavi in corrispondenza dei funghi delle valvole). I condotti possono essere quasi perfettamente rettilinei, con un angolo molto ridotto tra il loro asse e quello dello stelo della valvola.
Questa strada però può essere seguita solo fino a un certo punto. Al di sotto di un certo angolo, infatti, diventa difficoltoso ottenere un adeguato raffreddamento della zona inclusa tra le sedi delle valvole, e anche la geometria della camera di combustione si allontana da quella più vantaggiosa, avvicinandosi eccessivamente a quella lenticolare.
Per fare un esempio significativo, nel 1986 l’angolo tra le valvole nella Suzuki GSX750R era di 40°. Nel 1992 scese a 32° e nel 1996 (anno del passaggio alla catena di distribuzione laterale) a 29°. Nel 2000, infine, si è arrivati a 25°. Per gli altri costruttori è avvenuto qualcosa di esattamente analogo.
Oggi, per quanto riguarda i motori di prestazioni più elevate, l’angolo incluso va da 20° a 28°, con massima “concentrazione” dalle parti di 22°-24°. Nel motore CBR600 è di 23°30’, pressoché identico, guarda caso, a quello (23°27’) tra l’asse terrestre e il piano orbitale…Che la natura non abbia qualcosa da insegnarci anche ‘stavolta?