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Le moto della nostra comparativa mostrano al meglio quello che è lo stato dell’arte in campo motoristico. Realizzati con tre differenti architetture costruttive, i loro motori adottano varie soluzioni degne di quelli da Gran Premio e impiegano materiali e riporti superficiali particolarmente sofisticati. Una semplice analisi dei parametri di maggiore importanza dimostra chiaramente che si tratta di realizzazioni straordinariamente evolute sotto l’aspetto tecnico, in grado di sopportare senza problemi sollecitazioni fino a pochi anni fa impensabili per modelli di serie. Ha avuto la sua influenza su alcune scelte e sul livello di sviluppo (o di “spremitura”, se si preferisce) al quale sono stati portate queste moto anche il nuovo regolamento superbike, che consente interventi di potenziamento solo di modesta entità rispetto ai modelli omologati per impiego stradale. E allora è logico che i costruttori abbiano sviluppato versioni particolarmente spinte delle loro moto di serie, in grado di risultare competitive in pista con poche modifiche.
Le scelte di base sono chiaramente quelle che consentono di ottenere le prestazioni più elevate e quindi rappresentano l’autentico denominatore comune che lega tutti questi motori: teste bialbero a quattro valvole, camere compatte, condotti di aspirazione pressoché perfettamente rettilinei e via dicendo. Quello che cambia sono le modalità di applicazione degli schemi e, logicamente, i dettagli. Che comunque a questi livelli hanno una importanza fondamentale.
Dei quadricilindrici in esame, due sono in linea mentre uno ha una architettura a V di 65°, vantaggiosa ai fini del contenimento dell’ingombro in senso trasversale. Si tratta del motore della Aprilia, la cui struttura è stata scelta anche in quanto consente di ridurre a tre il numero dei supporti di banco, e di realizzare un albero corto e rigido. È però necessario fare ricorso a due catene di distribuzione e impiegare un albero ausiliario di equilibratura. In ciascuna testa sono alloggiati due alberi a camme, in presa tra loro per mezzo di due ruote dentate; quello di scarico viene trascinato in rotazione dall’albero di aspirazione, al quale il moto viene trasmesso dalla catena di distribuzione.
Questo motore è stato oggetto di un accurato lavoro di affinamento, effettuato alla luce delle straordinarie esperienze maturate in superbike. Le valvole sono adesso tutte in titanio e quelle di aspirazione hanno visto il loro diametro aumentare di un millimetro. L’albero a gomiti è stato riprogettato e adesso ha i perni di manovelle di minor diametro, il che è vantaggioso ai fini del contenimento delle perdite per attrito. Il sistema di aspirazione prevede un nuovo airbox.
I due motori con i cilindri in linea si differenziano notevolmente a livello di manovellismo. Il BMW è realizzato con lo schema usuale, che prevede i perni di biella tutti su di uno stesso piano (le manovelle sono cioè a 180°). Questa soluzione consente di ottenere una perfetta equidistanza tra le fasi utili, che si susseguono ogni 180° di rotazione. Le forze d’inerzia del primo ordine sono perfettamente equilibrate. A non essere bilanciate sono quelle del secondo ordine che però sono di entità piuttosto modesta, al punto che i tecnici della casa bavarese non hanno ritenuto opportuno dotare il loro motore di alcun albero ausiliario di equilibratura.
Nel motore BMW, che è stato il primo quadricilindrico di serie ad adottare i bilancieri a dito con riporto di DLC, il comando della distribuzione prevede una coppia di ingranaggi, mossa dall’albero a gomiti, che aziona una catena posta sul lato destro, la quale trascina in rotazione i due alberi a camme. Questo motore è l’unico 1000 a quattro cilindri ad avere un alesaggio di 80 mm, cosa che consente l’adozione di valvole di aspirazione da ben 33,5 mm di diametro. Nello sviluppo si è lavorato in particolare al contenimento delle perdite per attrito e al miglioramento della respirazione (condotti di aspirazione con nuova geometria, airbox con maggior volume).
Il motore Yamaha adotta uno schema pressoché inedito, per un quadricilindrico a quattro tempi, con i perni di biella disposti su due piani a 90° tra loro. L’equidistanza tra le fasi utili in questo caso non c’è ma secondo la casa giapponese la soluzione offre vantaggi in termini di guidabilità e di erogazione. Quello che è certo è che quando due pistoni sono momentaneamente fermi ai punti morti gli altri due viaggiano con una velocità assai prossima a quella massima, cosa che consente di ridurre le masse volaniche… Un manovellismo di questo genere, con i perni di biella a 90°, non è del tutto inedito; lo adottava infatti il motore URS di Helmut Fath con il quale sono stati vinti i titoli mondiali sidecar nel 1968 e nel 1971.
Di straordinario interesse tecnologico nel motore della R1 sono le bielle in titanio con cappello posizionato per mezzo del raffinato sistema delle superfici di frattura coniugate. Si tratta di una autentica “prima”, in quanto le bielle realizzate con questo costoso materiale, tipicamente destinate ai soli motori da competizione, finora utilizzavano altri sistemi, ovvero spine calibrate, dentature triangolari, etc…. Evidentemente è stata adottata una lega di titanio di recente sviluppo (del tipo contenente anche boro), che permette la rottura fragile della testa.
Non è solo l’impiego di queste bielle a tradire l’impostazione davvero corsaiola di questo motore. Un particolare particolarmente significativo è costituito dalla mandata olio ai cuscinetti di biella per mezzo di una canalizzazione dell’albero con ingresso assiale, come nei motori delle MotoGP. A livello di testa (riprogettata e ora con angolo tra le valvole leggermente diminuito), molto indicativo è anche il passaggio ai bilancieri a dito per il comando delle valvole.
Il bicilindrico Ducati rientra in una categoria a sé stante. Ha una architettura a V di 90°, un numero di cilindri diverso da quello delle altre supersportive della nostra prova e, naturalmente, ha la distribuzione desmodromica. In ogni testa ci sono due alberi a camme, ognuno dei quali è dotato di quattro eccentrici (due di apertura e due di chiusura). Per ogni valvola vengono impiegati due bilancieri, uno dei quali (a dito) provvede al sollevamento e l’altro (a due bracci) al richiamo. Il comando della distribuzione è affidato a due catene a bussole (una per ogni cilindro), che prendono il moto direttamente dall’albero a gomito e, una volta arrivate alla testa, azionano gli alberi a camme per mezzo di una compatta terna di ingranaggi.
Questo motore, il cui basamento si “apre” secondo un piano mediano verticale, è davvero “estremo”; basta infatti pensare all’alesaggio inusitato di ben 116 mm. In aggiunta a quelle appena indicate, presenta anche altre interessanti particolarità, come le canne umide, del tipo con bordino di appoggio superiore, che vengono montate subito prima della chiusura del basamento. I cilindri sono infatti incorporati in quest’ultimo, che viene ottenuto per mezzo di un raffinato sistema di pressofusione sotto vuoto denominato Vacural.
Alcuni numeri significativi consentono di fare interessanti considerazioni. La velocità media del pistone al regime di potenza massima, che viene in genere ritenuta un affidabile indice delle sollecitazioni meccaniche, è molto simile per tutti e tre i 1000 quadricilindrici. Va infatti dai 22,36 m/s del BMW ai 23,5 m/s dell’Aprilia. A impressionare però sono le accelerazioni dei pistoni, arrivate oramai a livelli dell’ordine di 60.000 m/s2 che fino a poco tempo fa soltanto erano esclusivi dei motori da competizione. Del resto, qui si parla di 1000 da 200 cavalli, che girano a 13.000-13.500 giri/min… Pure la potenza specifica areale, che indica il carico termico al quale sono sottoposti organi come i pistoni e le pareti della testa, è da record, per motori aspirati di serie.
Il bicilindrico Ducati è proprio di un’altra “razza”, se si considerano la cilindrata unitaria, il rapporto corsa/alesaggio (0,524 contro i valori di 0,62-0,67 che si hanno nei 1000) e il regime di rotazione (10.500 giri/min). La potenza specifica è sensibilmente minore (158 CV/litro) e anche la velocità media del pistone è meno elevata, sempre rispetto ai 1.000 quadricilindrici, con i suoi 21,3 m/s.
Che questi risultati vengano forniti da motori perfettamente in regola con le emissioni e in grado di funzionare impeccabilmente per decine e decine di migliaia di chilometri costituisce un risultato assolutamente straordinario.
"Vorrei sapere per curiosità l'accelerazione max del pistone nel motore Ducati 1299, il limite di 60.000 m/sec2 può essere sopportato da pistoni con alesagio da cilindrata 250 ma per un 116 mm da 650 cc non credo proprio. E' stato sempre questo il limite per l'affidabilità del bicilindrici supertirati, allora meglio passare ad un 4 sopra i 150 cv e i 10.000 g/min? Grazie.
Berrapoto01"
In fondo il bicilindrico Ducati 1299 S non è sollecitato come si potrebbe pensare. L’accelerazione massima positiva del pistone al regime di potenza massima supera di poco i 46.000 m/s2. Dunque, è ben inferiore a quelle dei quadricilindrici di 1000 cm3. Qui però le masse in moto alterno sono nettamente maggiori. D’altro canto, sono più grandi anche le sezioni in gioco e le superfici sulle quali si ripartiscono le forze…
A titolo di confronto, nei motori di Formula Uno aspirati, prima delle note limitazioni in fatto di regime massimo di rotazione, le accelerazioni superavano i 90.000 m/s2, con pistoni del diametro di 98 mm.
"Una domanda a Clarke ... secondo lei quale cilindrata sarebbe la piu' giusta per un 2 cilindri 1.200 o 1.300, e dato che questo 1.300 lo definisce estremo, il 1.200 cos'è ... la quintessenza dei motori ???
Andrea Turconi"
Ho definito estremo il motore della Ducati 1299 S non tanto per la cilindrata unitaria (comunque, molto elevata per un motore da competizione) quanto per il rapporto corsa/alesaggio, bassissimo per una realizzazione di serie e, soprattutto, per l’alesaggio di ben 116 mm, davvero inusitato.
Tra 1200 e 1300 cm3 mi sembra che le cose non cambino poi tantissimo.
I quadricilindrici 1000 e i bicilindrici 1200 sono di “razze” abbastanza diverse. I prodotti di serie della Ducati sono tradizionalmente bicilindrici e quindi lo sono anche quelli delle superbike della casa bolognese. Per offrire una bicilindrica di serie in grado di fornire prestazioni analoghe (se non leggermente superiori) a quelle delle 1000 a quattro cilindri i tecnici della Ducati hanno giustamente ritenuto opportuno aumentare la cilindrata, portandola a quasi 1300 cm3.
In quanto al fatto che una cilindrata unitaria di 650 cm3 possa essere all’atto pratico la massima utilizzabile per i motori di prestazioni più elevate, le ricordo che le vetture NASCAR con 732 cm3 per ogni cilindro sono arrivate a fornire oltre 140 CV/litro (ovvero 104 CV per cilindro), con teste a due valvole e distribuzione ad aste e bilancieri, ruotando a oltre 9000 giri/min, in gare della durata di alcune centinaia di chilometri. Può anche essere interessante osservare che gli ultimi Offenhauser che hanno corso (e vinto) a Indianapolis erano sovralimentati, ma con una pressione limitata dal regolamento a un valore relativamente modesto; con una cilindrata unitaria di 650 cm3 avevano una potenza specifica di 278 CV/litro (dunque, erogavano 181 CV per ogni cilindro).
Comunque, per correre in superbike, un 1000 a quattro cilindri mi sembra leggermente avvantaggiato. Con un 1200 bicilindrico la strada appare più dura. Tanto di cappello alla Ducati, quindi.