Massimo Clarke: “Gli ultimi dischi rotanti da gran premio”

Massimo Clarke: “Gli ultimi dischi rotanti da gran premio”
I dischi rotanti hanno vissuto anni di fulgore e sono stati adottati da importanti costruttori di tutto il mondo dopo che avevano dimostrato la loro validità già agli inizi del Novecento
14 maggio 2015

Come abbiamo scritto approfonditamente nella prima parte dedicata alla storia dei motori a disco rotante nei gran premio, Walter Kaaden ha mostrato la strada a tutti, con le sue velocissime MZ dotate di cilindri con tre travasi, scarico a camera di espansione e ammissione a disco rotante. Nel 1961 la casa di Zschopau avrebbe sicuramente conquistato il titolo mondiale se il suo pilota di punta, Ernst Degner, non fosse scappato ad ovest per passare alla Suzuki, portando con sé i segreti delle straordinarie due tempi tedesche. Per la verità quell’anno impiegavano valvole a disco rotante tanto la Suzuki quanto la Yamaha da Gran Premio, ma evidentemente non conoscevano ancora bene la tecnologia dei due tempi da competizione. La defezione di Degner è stata un brutto colpo per la MZ che da allora in poi ha diminuito il suo impegno in campo internazionale, pur procedendo con lo sviluppo dei motori da corsa. Ormai però anche gli altri stavano rapidamente imparando a sfruttare le onde di pressione e a utilizzare al meglio quanto offerto dalla aspirazione a disco rotante.

Suzuki rilancia

La Suzuki ha conquistato il suo primo titolo iridato nel 1962 e si è imposta addirittura in due classi l’anno successivo. Oramai la strada era indicata. E infatti tutte le moto a due tempi che hanno conquistato il titolo mondiale negli anni Sessanta (ben 15) hanno adottato l’aspirazione a disco rotante. Da noi i pionieri sono stati la Parilla, per merito dell’ing. Cesare Bossaglia, e Francesco Villa. Rispetto alla classica soluzione con ammissione in terza luce, i vantaggi erano considerevoli.

 

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Tutte le moto a due tempi che hanno conquistato il titolo mondiale negli anni Sessanta, ben 15, hanno adottato l’aspirazione a disco rotante

Tanto per cominciare, l’ammissione nella camera di manovella risultava svincolata dal movimento del pistone. Ciò consentiva di aumentare notevolmente la durata della fase di aspirazione semplicemente anticipando l’apertura della luce. La fasatura poteva diventare nettamente asimmetrica. Con la soluzione tradizionale questo non sarebbe stato possibile. Infatti se in un motore con aspirazione in terza luce si aumenta l’anticipo di apertura della luce, si incrementa in egual misura il ritardo di chiusura. Oltre un certo valore di quest’ultimo però non è possibile andare. Di conseguenza la massima durata della fase viene ad essere limitata. L’ammissione a disco rotante consente di superare in larga misura il problema. È possibile aumentare l’anticipo di apertura della luce, e quindi la durata della fase, mantenendo invariato il ritardo di chiusura (evitando pertanto che esso risulti eccessivo).

Alcuni esempi possono qui essere utili. Nei motori di serie con ammissione in terza luce (da tempo scomparsi dalla scena in quanto sostituiti da quelli con ammissione lamellare) la durata della fase di aspirazione era dell’ordine di 140°-160°. Nelle (poche) moto da competizione che impiegavano questa soluzione i valori erano più alti; le ultime Yamaha TZ arrivavano addirittura dalle parti di 200°-205°. Nei motori di serie con ammissione a disco rotante la durata della fase di aspirazione era dell’ordine di 175°-195°. Nella mitica Suzuki 500 RG Gamma della seconda metà degli anni Ottanta quest’ultimo valore veniva ottenuto con un anticipo di 140° e un ritardo di 55° (195°). Le moto da corsa spesso arrivavano dalle parti di 230° (180° + 50°).

Da MZ al tandem Kawasaki

Altri vantaggi importanti che l’aspirazione controllata da valvola a disco offre rispetto alla tradizionale soluzione in terza luce sono costituiti dalla grande rapidità di apertura e di chiusura della luce e dalla assenza di ostruzioni o di restrizioni nel condotto. Per contro, la disposizione del disco, montato direttamente su una estremità dell’albero a gomito, comporta la necessità di piazzare lateralmente il carburatore. Si può ovviare piazzando quest’ultimo sul dorso del basamento (sempre con il disco laterale), ma ciò peggiora la respirazione del motore in quanto il condotto diventa lungo e assume un andamento svantaggioso. La cosa è accettabile per motori da enduro e da cross, non certo per quelli da GP e per gli stradali sportivi. Ad ogni modo, la presenza di un carburatore montato su di un coperchio laterale del basamento non pone problemi particolari, a livello di ingombro, per i motori monocilindrici. Nei bicilindrici però le cose possono cambiare.

 

Kawasaki KR 250 GP
Kawasaki KR 250 GP

Occorre montare un carburatore a ogni lato del basamento, cosa che in genere è OK nelle 125 (tanto di serie quanto da competizione) e può essere senz’altro accettabile nelle stradali anche di cilindrata notevolmente superiore; non si può dire però proprio lo stesso per quanto riguarda le moto da Gran Premio di 250 cm3 e oltre. Viene penalizzata la penetrazione aerodinamica, in quanto la sezione frontale diventa molto considerevole, con una larghezza che può addirittura avvicinarsi a quella di una moto maggiormente frazionata e/o di cilindrata nettamente superiore. Questo ha portato la MZ a realizzare un motore con i cilindri disposti “in tandem”, nel quale cioè si impiegavano due alberi a gomito individuali, in presa tra loro, e c’erano due camere di manovella, disposte una davanti all’altra. In pratica, è come se a un monocilindrico ne venisse aggiunto un altro, prolungando il basamento. Le moto della casa tedesca dotate di cilindri in tandem sono rimaste allo stadio di prototipo (la 125 è apparsa nel 1969 e la 250 nel 1971). Questa stessa architettura è stata però ripresa qualche anno più tardi con eccezionale successo dalla Kawasaki con la KR (realizzata in versioni di 250 e di 350 cm3, ha conquistato ben otto titoli iridati) e dalla Rotax con il bicilindrico tipo 256, di 250 cm3.

Marco Lucchinelli sulla Suzuki RG 500
Marco Lucchinelli sulla Suzuki RG 500

Sempre restando nell’ambito delle competizioni al massimo livello, nella classe 500 l’ammissione a disco rotante ha mostrato ciò che consentiva di ottenere con le splendide Suzuki a quattro cilindri in quadrato; a lungo grandi protagoniste della scena, queste moto hanno consentito a piloti come Sheene, Uncini e Lucchinelli di conquistare quattro mondiali. Per le 500 in seguito è cominciato un predominio indiscusso delle valvole a lamelle, ma nelle classi 125 e 250 l’Aprilia ha mantenuto alto il vessillo del disco rotante. L’ultimo titolo iridato conquistato da una moto a due tempi, prima del ritorno al 4T reso obbligatorio dalla FIM, è stato appunto ottenuto con un motore che aveva l’ammissione di questo tipo (ed erogava oltre 400 CV/litro!).

Dai GP alla serie

Visti i grandi successi che le valvole a disco rotante stavano ottenendo in campo agonistico, nella prima metà degli anni Sessanta questi dispositivi hanno iniziato ad essere adottati anche su svariate moto di serie. Da noi ha fatto scalpore la Guazzoni Matta, apparsa nel 1965, il cui motore di 50 cm3 non solo aveva l’ammissione a disco, ma anche lo scarico posteriore, proprio come le MZ! L’azienda milanese ha realizzato anche modelli di 100 e di 125 cm3 con identico schema. In Giappone però di moto con tale tipo di ammissione ne è stato realizzato un gran numero, da parte di tutti i principali costruttori di modelli a due tempi. Si trattava tanto di mono di piccola cilindrata quanto di bicilindrici, alcuni dei quali sono stati venduti negli USA in numeri molto consistenti. Particolarmente famosi (e di loro si è parlato anche in Europa) sono stati i motori a due cilindri paralleli realizzati dalla Bridgestone e dalla Kawasaki. Quest’ultima ha ottenuto ottimi risultati anche in campo sportivo con le sue A1 Samurai di 250 cm3 e A7 Avenger di 350 cm3 apparse rispettivamente nel 1966 e nel 1967.

La bellissima Guazzoni 125 bicilindrica da Gran Premio del 1970 era dotata di un disco rotante (e di un carburatore) a ciascun lato del motore
La bellissima Guazzoni 125 bicilindrica da Gran Premio del 1970 era dotata di un disco rotante (e di un carburatore) a ciascun lato del motore

Negli anni Settanta hanno realizzato ottime moto da fuoristrada con questo tipo di ammissione la Maico e la Gilera. In seguito, ampia diffusione hanno avuto i monocilindrici Rotax a disco costruiti in cilindrate comprese tra 125 e 280 cm3; anche in questo caso si trattava di ottimi prodotti, nati fondamentalmente per impiego fuoristradistico. Nella seconda metà degli anni Ottanta ha fatto addirittura scalpore la straordinaria Suzuki RG 500 Gamma, una vera race replica con quattro cilindri in quadrato e ammissione a disco rotante. Si è trattato dell’ultimo grande esempio di impiego di questa soluzione su un modello stradale.

Prototipi, acqua e corse

Anche negli altri settori nei quali si impiegano motori a due tempi le valvole a disco hanno trovato importanti applicazioni. In campo fuoribordistico Dieter Konig ha iniziato a interessarsi agli otturatori rotanti già negli anni Cinquanta, ben prima cioè di realizzare i suoi famosi quadricilindrici boxer con unico disco collocato sul dorso del basamento. Fin dai primi anni Sessanta Cesare Bossaglia ha cominciato ad impiegare in misura via via crescente l’ammissione a disco rotante in motori per kart. Questo grande progettista ha anche realizzato un interessante sei cilindri boxer per impiego automobilistico, rimasto allo stadio di prototipo, con tre dischi rotanti nella parte superiore del basamento, e un bicilindrico per impiego fuoribordistico con due dischi comandati da un alberello centrale.

La Jawa, che ha sempre mostrato un notevole interesse per questo tipo di ammissione, ha ottenuto alcuni brevetti relativi a un monocilindrico con disco nella parte superiore del basamento e a un bicilindrico con unico disco rotante ad asse perpendicolare rispetto a quello dell’albero a gomiti e azionamento affidato a un alberello mosso tramite un rinvio a vite senza fine. Una soluzione di questo genere è stata impiegata a lungo dalla Rotax in un suo motore destinato alle motoslitte. Per quanto riguarda i monocilindrici, l’idea di piazzare il disco non su di un fianco ma sul dorso del carter, subito dietro la base del cilindro, è quella di ottenere una migliore ripartizione del flusso gassoso in entrata, evitando che esso possa tendere ad “alimentare” maggiormente un lato della camera di manovella. Ha impiegato un disco centrale comandato da ingranaggi la BBFT nel suo ultimo 125, realizzato ad Ivo Tosi e rimasto allo stadio di prototipo.

 

Aprilia RSA 125
Aprilia RSA 125

Una luce centrale può essere però scoperta e ostruita anche da una valvola a disco, sempre con asse di rotazione perpendicolare a quello dell’albero a gomito, spostata lateralmente rispetto al cilindro. Proprio questa disposizione è stata adottata dalla CZ in un interessante prototipo per impiego fuoristradistico e dalla Aprilia per le sue ultime 125 ufficiali. Nel primo caso l’alberello del disco prendeva il moto direttamente dall’albero a gomito mentre nel secondo veniva azionato dall’albero ausiliario di equilibratura.

Per concludere, non si può non ricordare l’ultima realizzazione di quell’autentico geniaccio di Helmuth Fath. Si trattava di un quadricilindrico boxer di 500 cm3 che ha fatto la sua comparsa nel 1972 e nel quale l’aspirazione era regolata da due dischi, posti sul dorso del basamento, che giravano con velocità dimezzata rispetto all’albero a gomiti. Ognuno di essi scopriva (o ostruiva) contemporaneamente due luci, collocate in posizioni diametralmente opposte. In seguito, per ottenere aperture e chiusure delle luci più rapide, il tecnico tedesco ha adottato una soluzione inusitata, disponendo sopra ognuno di quelli già esistenti un secondo disco, perfettamente coassiale ma controrotante!  

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