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Le moto turbo non sono certo una novità. I non più giovanissimi ricorderanno senz’altro che all’inizio degli anni Ottanta, sull’onda dell’entusiasmo che si stava vivendo in campo auto per la sovralimentazione, i quattro costruttori giapponesi avevano messo in produzione alcuni modelli che adottavano tale soluzione. La Morini aveva presentato una meravigliosa 500 turbo, con tanto di intercooler, che è purtroppo rimasta allo stadio di prototipo. E aveva anche provato un compressore volumetrico su una sua 125, nel tentativo di portarne le prestazioni almeno a livello di quelle dei modelli a due tempi di pari cilindrata.
Le quattro moto giapponesi con turbocompressore derivavano da modelli preesistenti; al loro apparire hanno destato una notevole curiosità, ma non certo un vero e proprio entusiasmo. E alla prova dei fatti sono state degli autentici flop commerciali (solo la Honda si è venduta in numeri a malapena soddisfacenti). Gli stessi costruttori, probabilmente, non ci credevano più di tanto…
La Honda CX 500 TC si è poi evoluta nella CX 650 TC, da 100 cavalli a 8000 giri/min. La Yamaha XJ 650 T (unica delle giapponesi turbo a essere alimentata con carburatori) disponeva di 90 cavalli, quattro in più della Suzuki XN 85 di eguale cilindrata. La Kawasaki, ultima ad apparire sulla scena, era la più sportiva; la sua Z 750 Turbo (ovvero GPZ 750 Turbo) di cavalli ne aveva 109 a un regime di 8500 giri/min. Le potenze specifiche di queste moto andavano dunque da 132 a 154 cavalli/litro.
All’epoca era ben difficile eliminare i difetti tipici dei turbocompressori, primo tra tutti il ritardo nella risposta all’azionamento del gas, al quale si aggiungeva il fatto che se il dispositivo era ottimizzato per le massime prestazioni, ai bassi regimi non serviva a nulla; il motore era “vuoto”. Il contrario sarebbe avvenuto (ma non lo faceva nessuno) se si fosse impiegato un turbo ottimizzato per il tiro ai medi regimi: alle alte velocità di rotazione del motore sarebbe andato in crisi e la sua presenza sarebbe risultata controproducente!
Le moto turbo costruite all’epoca avevano una guidabilità che lasciava molto a desiderare, con un forte ritardo di risposta e con la potenza che a un certo punto arrivava tutta insieme. E poi, a ben vedere, non servivano a nulla. Risultati migliori si potevano tutto sommato ottenere aumentando la cilindrata (e/o il regime di rotazione). L’unica che si salvava, come detto, era la Honda, che era anche la più avanzata, come sistema di gestione, e che non aveva certo una impostazione sportiva. Anche lei però non era certamente impeccabile.
In campo auto le cose sono andate diversamente perché i risultati ottenuti dalle monoposto di Formula Uno hanno effettivamente spinto diversi costruttori a realizzare modelli turbo di serie molto “pepati”, alcuni dei quali hanno anche ottenuto una buona accoglienza da parte del mercato. E poi c’erano Case come la Porsche che già da tempo realizzavano eccellenti vetture con questo tipo di sovralimentazione.
Dove però il turbocompressore si è affermato a mani basse, è stato sui mezzi muniti di motore diesel. Gli autocarri qui hanno anticipato le auto, che poi hanno saputo raggiungere prestazioni sempre più elevate, in relazione alla cilindrata, fino ad arrivare agli strabilianti valori odierni. Le ragioni di questo successo si comprendono agevolmente se si considera, innanzitutto, che nei diesel la temperatura dei gas di scarico è notevolmente più bassa di quelle che si raggiungono sui motori a ciclo Otto (nessun problema quindi per la turbina). Inoltre, a differenza di quanto avviene in questi ultimi, nei diesel il volume dei gas di scarico è sempre piuttosto elevato, anche quando si procede con il pedale dell’acceleratore completamente sollevato, e quindi la turbina viene comunque “alimentata” in una certa misura dei gas stessi, cosa che riduce in qualche modo il ritardo di risposta (ovvero il famigerato “turbo lag”).
Infine, nei motori a gasolio, a differenza di quanto avviene in quelli a benzina, non esiste il problema della detonazione; ciò consente di adottare pressioni di sovralimentazione anche cospicue senza essere costretti a ridurre il rapporto di compressione, cosa che farebbe peggiorare il rendimento. Dunque i diesel si sposano ottimamente con la sovralimentazione (e infatti oggi sono praticamente tutti turbo!).
Dopo un periodo nel quale l’interesse nei suoi confronti sembrava essersi fortemente intiepidito, sulle auto a benzina di recente si è assistito a un vigoroso ritorno del turbo. I motivi sono più d’uno. Innanzitutto, per ridurre i consumi si è affermato il downsizing, ovvero la filosofia che vuole motori piccoli ma “pepati”, cioè di elevata potenza specifica, cosa agevolmente ottenibile per mezzo della sovralimentazione. In secondo luogo la tecnologia dei turbocompressori ha subito uno sviluppo straordinario. Le turbine a geometria variabile sono da tempo una importante realtà, come pure i carter raffreddati ad acqua. Per certe applicazioni sono disponibili turbocompressori con l’albero supportato da cuscinetti volventi (minore attrito = maggior rapidità nel prendere i giri), talvolta dotati addirittura di sfere in materiale ceramico (minore inerzia delle parti da accelerare, quando si apre il gas). Fondamentale poi è la possibilità di utilizzare l’elettronica per gestire la waste-gate o la turbina a geometria variabile… Insomma, oggi è possibile ottenere elevate pressioni di sovralimentazione fin dai regimi medio-bassi, senza rinunciare a nulla in alto; e anche il problema del ritardo di risposta si può ritenere praticamente superato. Tutto questo è ben dimostrato dalle vetture turbo a benzina di ultima generazione.
I motori aspirati delle moto di alte prestazioni sono oramai arrivati a un elevato livello di esasperazione. I 200 cavalli/litro delle 600 sportive si ottengono con regimi di rotazione elevatissimi e a spese della corposità della erogazione e della ampiezza del campo di utilizzo. La guida, che richiede un intenso uso del cambio, è divertente per gli smanettoni, ma è anche impegnativa, se si vuole andar forte, e non sembra proprio adatta alla maggior parte dell’utenza. Il motore è sempre dolce e fluido, ma di birra ai medi regimi (per non parlare dei bassi) ce ne è davvero poca. Proseguire ancora su questa strada, incrementando ulteriormente i regimi di rotazione, sembra difficile. E infatti gli incrementi di potenza delle successive versioni diventano di anno in anno più modesti, se non addirittura trascurabili. Per disporre di una erogazione più piena e di un campo di utilizzazione più ampio si può salire di cilindrata, ma la moto diviene inevitabilmente più grossa e pesante.
La strada indicata dalla nuova realizzazione della Suzuki appare logica e interessante. Il motore bicilindrico di 588 cm3 eroga 100 cavalli a 8000 giri/min, un regime decisamente contenuto per gli standard odierni. E la coppia massima, di ben 100 Nm (degna di una 1000!), viene erogata a soli 4500 giri/min. Per inciso, questi valori sono analoghi a quelli a suo tempo dichiarati dalla Honda per la CX 650 T. Dunque, si è scelta la strada della moto agile e leggera, ma con un motore elastico e dalla erogazione decisamente piena. La guida può così diventare facile e molto piacevole anche per i meno smaliziati. Pure il quattro cilindri bialbero Kawasaki, anch'esso presentato al Salone di Tokyo, dovrebbe avere una cilindrata di circa 600 cc.
L’idea di abbracciare una filosofia tecnica tutto sommato analoga da quella che da alcuni anni a questa parte viene largamente seguita in campo automobilistico non sembra malvagia, almeno per quanto riguarda modelli di un certo tipo. Sarà interessante osservare come la prenderà il mercato. In attesa di saperne di più, speriamo che non si tratti di prototipi, realizzati per far vedere quanto sono bravi (è successo più volte in passato, con i costruttori giapponesi), ma di due proposte serie e sulle quali le Case puntano con la dovuta decisione. Staremo a vedere.