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Due attori, un grande artista, i modi di vivere e la motocicletta. A volte sono gli accadimenti, anche solo per cronologia, a collegare le cose. Pochi giorni fa se ne è andato Flavio Bucci, lasciando come testamento un’intervista senza filtri: “Io non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto”. E, due giorni fa, un altro attore, Elio Germano, ha vinto l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per la sua interpretazione in Volevo Nascondermi, dedicando il successo “a tutti gli storti, a tutti gli emarginati, a tutti i fuori casta”. Ma che c’entrano Bucci e Germano con le scelte di vita e la motocicletta? C’entrano perché entrambi, seppur in tempi diversi, hanno interpretato e raccontato il personaggio di Antonio Ligabue: il pilota pittore.
Se, ormai, la vita e le opere del più grande artista naif italiano sono note e hanno restituito dopo la morte la dignità a un uomo che è riuscito a stento a sopravvivere anche dopo la notorietà, non è sufficientemente nota la più grande passione di Antonio Ligabue: la motocicletta, appunto.
Un amore viscerale, un mezzo di libertà che ne ha in qualche modo stimolato l’opera artistica, poiché, come raccontano testi e studiosi, molto spesso Ligabue dipingeva per poter avere qualcosa con cui ripagare i meccanici che sistemavano la sua moto. Anzi, le sue moto, visto che Ligabue ha posseduto almeno sedici Moto Guzzi. “Quando era disperato e senza una donna saliva sulla moto e sfidava la nebbia dei viottoli di campagna, perché la testata scoppiettante e calda della Guzzi era l'unica consolazione contro il gelo dell'inverno e l'ostilità imperscrutabile del mondo”, racconta Edmondo Borselli in un saggio sul pittore naif.
La moto, quindi, come soffio di vita in una esistenza difficile, da emarginato che faceva i conti con pochi affetti e una creatività foriera di sensibilità e tristezze.
Tanto che le motociclettre sono divenute immancabili negli autoritratti, nelle fotografie successive alla fama, come a confidare che quell’uomo non sarebbe stato quell’artista, o chi altro, senza l’impulso della necessità, vitale e al tempo stesso disperata, di salire in sella.
I soldi ricavati dai primi quadri diventano il mezzo per comprare la prima Guzzi, e quella Guzzi diventa poi il mezzo per andare a vendere tra i proprietari terrieri di Gualtieri le altre opere, in un vortice di creatività ispirata dal bisogno di stringere un manubrio prima ancora che il pennello.
Un motociclista, insomma, non di quelli che siamo soliti raccontare e che primeggiano, ma di quelli che vincono pur stando tra gli ultimi: un pilota pittore che sembra aver stregato gli stessi attori che, nel tempo, lo hanno interpretato e raccontato.