MotoGP, dietro le quinte del Team Suzuki

MotoGP, dietro le quinte del Team Suzuki
Come sono organizzati la logistica e il lavoro di una squadra ufficiale? Quando arriva il materiale in circuito? E quando va via? È vero che i tir sono guidati dai meccanici, e che a fine anno le moto vengono letteralmente... segate in due? Ce lo siamo fatti raccontare direttamente dal team Suzuki
12 giugno 2019

Correre in moto è uno sport di squadra. Lo ricorda spesso il nostro Ingegner Giulio Bernardelle, ma altrettanto spesso siamo portati a dimenticarlo e, soprattutto, a non comprendere davvero il significato di queste parole.
Istintivamente tendiamo a ricomprendere tra le parti in gioco i tecnici, gli ingegneri, gli elettronici: ma raramente ci è data la possibilità di capire quanto sia importante e organico il lavoro che ogni team - nella sua interezza - svolge durante ciascun fine settimana. Di Gran Premio in Gran Premio, quella che si ripete è una liturgia mutata sotto alcuni aspetti, con la sempre più marcata professionalizzazione che ha pervaso il motomondiale, e la MotoGP in particolare. Ma come si svolge, in concreto, il lavoro di un team durante un week-end di gara? Il Gran Premio del Mugello è stato l’occasione per farselo raccontare da una squadra ufficiale come Suzuki.

Le navi e il castello

Ogni squadra è come una famiglia e ogni famiglia, si sa, ha le sue abitudini.

In Suzuki, per dirne una, la gestione dell’hospitality e di tutto ciò che ha a che fare con il lavoro che la squadra svolge sulla moto viaggia su due binari separati.
La logistica e il personale addetto al montaggio e smontaggio della prima è, infatti, affidato a una società terza e torna in carico al team per quanto riguarda la gestione degli ospiti e dei pasti. Diretta è, invece, la movimentazione dei mezzi che servono a trasportare le moto, i materiali e tutto ciò che serve per far correre i piloti.

Un ambito, quest’ultimo, in cui Suzuki si caratterizza per due scelte particolari.

Innanzitutto, la struttura che viene allestita nel retro dei box e che rappresenta il cuore pulsante, assieme a questi ultimi, dell’attività della squadra durante il week-end di gara, è formata da quello che gli uomini di Hamamatsu chiamano confidenzialmente come il “castello”.
In sostanza, hospitality a parte, Suzuki porta, di circuito in circuito, quattro camion. Due sono i cosiddetti camion “tecnici” - i tir che trasportano il materiale che serve ai meccanici per allestire i box e per operare sulle moto, oltre alle moto stesse - mentre altri due trasportano tre container e una gru.
Una volta in pista, i due camion tecnici sono parcheggiati a una distanza così precisa da essere misurata con dei puntatori laser - e vi lasciamo immaginare la gioia di doverli manovrare ogni volta fino a che la posizione esatta non viene azzeccata. Sopra ad essi, in senso trasversale, sono posizionati i tre container. Al piano di sotto abbiamo, così, tutto il materiale tecnico (ricambi, attrezzatura varia) e gli uffici che fungono da base per i meeting con gli ingegneri. Al piano di sopra sono presenti altre sale riunioni, aree riservate ai piloti - dove questi ultimi possono vestirsi prima di ogni turno, o rilassarsi senza dover fare rientro ai proprio motorhome - e una veranda che, per inciso, pare fosse molto utilizzata dal clan Iannone.

 

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Suzuki è l’unica squadra a disporre di una struttura di questo tipo, e il bisogno di darvi forma comporta la necessità di raggiungere il circuito nella giornata di lunedì di ogni settimana di gara.
Infatti, la gru che viene trasportata assieme ai tre container serve a posizionare proprio questi ultimi in testa ai due camion tecnici, e affinché questa operazione si svolga in sicurezza è necessario che intorno a chi la manovra ci sia meno gente possibile.

Ma quella del “castello” non è l’unica peculiarità di Suzuki.

Quando sono state gettate le basi per il nuovo corso del team, la grande esperienza di corse e - evidentemente - l’altrettanto ampia conoscenza in tema di logistica dei fratelli Brivio ha portato a decidere di non utilizzare l’aereo per spostare il “box” nelle trasferte intercontinentali.

Suzuki è, infatti, il solo team ad aver scelto di utilizzare ben tre set completi del materiale che serve per dare forma a un box, e ad aver deciso di spostare il tutto via nave. All’inizio della stagione, tanto per capirsi, un primo container con uno dei tre box va in Qatar, mentre l’altro parte - con mesi di anticipo - per l’Argentina. Quello che è in Qatar, finita la gara, va in Texas. Quello che è in Argentina va in Giappone: un modus operandi che comporta una oculatissima attività di pianificazione delle trasferte, e che vede i container con tutta questa attrezzatura vivere perennemente in viaggio nel corso della stagione. Una scelta che se, per certi versi, complica il lavoro della squadra, rende peraltro possibile un grande risparmio di denaro che può essere destinato altrove.

E se la parabola non funziona?

Si tratta di un processo teso a massimizzare l'efficienza che ha reso possibile, ad esempio, l’assunzione di alcuni autisti specificamente destinati alla guida dei quattro famosi tir. Già, perché le abitudini di un ambiente - quello del motomondiale - tradizionalmente e culturalmente abituato all’arte dell’arrangiarsi, fanno sì che, a tutt’oggi, la stragrande maggioranza dei team affidi ad alcuni dei suoi stessi meccanici la guida dei mezzi che si spostano via terra, durante le gare europee. 

Un pragmatismo che fa rima con romanticismo, e che vede gli stessi meccanici impegnati, ad ogni gara, nella fase di allestimento e disallestimento dei box, e ognuno dei membri della squadra chiamato a fare il suo perché tutto “succeda”. La parabola non funziona? Con tutti gli ingegneri elettronici che ci sono in squadra, qualcuno saprà di sicuro cosa fare.
Lo stesso può dirsi per gli uffici: ognuno allestisce il proprio, ognuno collega ogni volta i modem, le stampanti e tutto ciò che serve per lavorare. E indovinate un po’ chi manovra la famosa gru che serve a costruire il “castello”? Davide Manfredi, il Chief Mechanic di Rins! Perché proprio lui? A quanto pare per la sua proverbiale sensibilità, maturata in un passato come pilota da rally.

Partire è un po’ morire

Ma se tanto impegno richiede la fase che precede i Gran Premi, non da meno è tutto ciò che succede una volta che la bandiera a scacchi è calata sui contendenti. Innanzitutto: i meccanici guardano la gara? Sembra una domanda banale, ma la risposta non è così scontata. Il lavoro da fare è una montagna, e se un giorno vi dovesse mai capitare di gironzolare nel paddock mentre la corsa si sta svolgendo, avrete modo di osservare come il “rituale” del GP sia vissuto in maniera decisamente più pagana da chi, nel dietro le quinte del motomondiale, ci lavora.
Detto questo, la risposta banalmente è: sì, i meccanici guardano la gara - come dice Jacques Roca, Chief Mechanic di Joan Mir, «con tutta la fatica che facciamo per farli correre, facci vedere almeno come va a finire!”.
Vero, ma altrettanto vero è che al termine dell’ultimo giro - al netto di eventuali festeggiamenti - tutto va immediatamente smontato e reimpacchettato. La gru fa di nuovo la sua comparsa nel paddock, questa volta in un clima che viene descritto come discretamente confusionario, in cui tutti i team cercano di guadagnare l’uscita il più in fretta possibile.
Per facilitare le operazioni di smontaggio del “castello”, il team Suzuki, nel retro-box, è spesso posizionato a fianco ad un team di Moto2, che correndo prima permette ai suoi meccanici di caricare i rispettivi container qualche ora prima, liberando in anticipo rispetto a una squadra di MotoGP lo spazio che serve a manovrare la gru in libertà. Chi decide come devono posizionarsi i vari team? L’IRTA. Il paddock è come un piccolo paese, soggetto a permessi e “concessioni edilizie”, e il progetto del “castello”, non a caso, ha necessitato di una approvazione specifica. Alle dieci di sera il “castello” è stato smontato, e i quattro tir sono pronti a partire. Il team Suzuki, però, preferisce - meritoriamente - far viaggiare i propri autisti il giorno seguente, perché non siano costretti a lunghi trasferimenti di notte. E se ci sono due gran premi uno in fila all’altro? Si corre! È questa un’eventualità che si manifesta soltanto con le “doppie” Assen-Sachsenring e Brno-Austria (Red Bull Ring), e che tuttavia costringe a rivedere in parte il solito iter.
Gli autisti arrivano, così, in circuito già verso ora di pranzo, la domenica, e sono pronti a schizzare via non appena i camion sono stati chiusi, dopo aver dato loro stessi una mano a caricarli. I camion ripassano dalla sede del team - che per Suzuki è in Italia, a Cambiago - soltanto tre volte l’anno. Dopo essere partiti da Jerez, ad esempio, i quattro tir del retro-box si sono fermati in un’area di smistamento nei pressi di Le Mans. Meccanici e personale alla guida sono rientrati, poi, in aereo, salvo tornare nuovamente dove i camion sono stati custoditi, il lunedì antecedente la gara, per ripartire alla volta del circuito.

La leggenda delle moto segate

Ok, ok, tutto quanto descritto in precedenza è ciò che succede durante la stagione: ma cosa avviene alla fine dell’ultima gara?
Che fine fanno le moto che hanno corso per un interno anno?
Forse non tutti sanno che i prototipi vengono distrutti. Tuttora si narra di come, ai tempi d’oro delle "due tempi", alcuni team usassero letteralmente segare in due le moto al termine della stagione, nel retro del box. Che fosse vero o meno, fuor di dubbio è che, anche nel 2019, delle moto che hanno corso per tutto l’anno è destinato a non rimanere nulla. Qualunque pezzo che sia montato o a disposizione del team Suzuki MotoGP, innanzitutto, deve rientrare in Giappone. Una volta giunto a destinazione, se necessario, viene analizzato: sia nel caso in cui sia oggetto di studio, sia qualora non ne abbia bisogno, ogni componente viene pressato. Due i motivi: riservatezza e tasse.
Ogni pezzo, infatti, porta con sé il know-how dell’azienda che l’ha prodotto: stiamo parlando di prototipi, della massima espressione di ogni Casa impegnata nel motomondiale. Niente deve poter circolare, finire in mani sbagliate, e così, per non saper né leggere, né scrivere, lo si fa sparire. 

Ma soprattutto, ogni moto (MotoGP) ha un valore stimato di circa 1,2 milioni di Euro. Si tratta di cespiti che sono in carico alla società (Suzuki, in questo caso) e la cui distruzione comporta dei benefici, da un punto di vista fiscale.
Decisamente meno romantico dei meccanici che guidano i tir, ma di sicuro molto molto utile a poter mettere ogni più piccola risorsa a disposizione della causa: tagliare il traguardo per primi, any given sunday.