Motori ieri e oggi: fossili e reliquie

Ovvero, nei motori di una volta – fino nemmeno a tantissimo tempo fa - c’erano le “puntine platinate” e altre meraviglie...
22 marzo 2021

Nel corso degli anni i tecnici si sono impegnati nella ricerca di soluzioni in grado non solo di migliorare le prestazioni, l’affidabilità e la durata dei loro motori ma anche di ridurre le esigenze di manutenzione.
In altre parole di diminuire il numero degli interventi periodici, di diradarne la frequenza e di renderne se possibile più agevole l’esecuzione. Grazie anche ai progressi compiuti nei vari settori interessati alcune operazioni sono addirittura scomparse dalla scena e ormai le ricordano solo gli appassionati e i meccanici di una certa età.

Se si parla a un giovane del ruttore di accensione e dei relativi contatti (quelli che una volta erano generalmente noti come “puntine platinate”) probabilmente rimarrà sbalordito e chiederà di cosa si tratta e a cosa serviva.

Da diverso tempo la manutenzione periodica, che in passato era spesso molto impegnativa, si riduce fondamentalmente a una serie di controlli più alcune sostituzioni (da effettuare peraltro a intervalli chilometrici di gran lunga maggiori rispetto al passato).
Negli anni Settanta l’olio del motore in genere si cambiava ogni 2.500 km o giù di lì e le candele avevano una vita utile che veniva usualmente indicata in 8.000-10.000 km per i motori a quattro tempi e in 5.000 km per quelli a due. Pure il gioco delle valvole andava controllato con notevole frequenza (generalmente ogni 5.000 km). Da tempo cose di questo genere sono addirittura impensabili.

Oggi però per effettuare la manutenzione spesso occorrono attrezzature dedicate e strumentazioni anche piuttosto sofisticate. Diversi interventi non sono più alla portata degli appassionati, che invece in passato potevano effettuare personalmente tutte le operazioni periodiche necessarie.

Tutti potevano mettere le mani nei carburatori ma con i sistemi di iniezione elettronica le cose sono ben diverse… Oggi la mano d’opera potrebbe sembrare addirittura banale e ridotta al minimo ma in effetti è spesso lunga e tediosa perché per raggiungere i punti interessati occorre rimuovere parti di carrozzeria e sovrastrutture, staccare connessioni elettriche, etc…

La scomparsa dei ruttori di accensione è stata accolta con grande piacere dagli addetti ai lavori perché ha eliminato alcune operazioni che in teoria erano piuttosto semplici ma che spesso in realtà potevano risultare abbastanza impegnative. Un ruttore è costituito da un contatto mobile (montato su un piccolo braccio fulcrato sul quale agisce una molla) e uno fisso, vincolati a un piatto o una piastrina metallica di supporto.

Una camma agisce sul pattino in fibra del contatto mobile e provvede a staccarlo da quello fisso quando opportuno, interrompendo il circuito elettrico. Quando inizia l’apertura dei contatti tra gli elettrodi della candela scocca la scintilla. Quello che conta è che ciò avvenga nel momento corretto, ossia con il previsto anticipo rispetto al punto morto superiore di fine corsa di compressione.

Nei motori a quattro tempi però l’anticipo ottimale varia con il regime e con il carico. Una maggiore velocità di rotazione riduce infatti il tempo disponibile per la combustione. Al diminuire del carico si riduce la densità della miscela aria-carburante nel cilindro; la velocità di combustione risulta quindi minore.

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Per circa trent’anni il variatore centrifugo di anticipo è stato impiegato universalmente sui motori a quattro tempi di serie. Era costituito da due masse fulcrate, con relative molle di contrasto che, aprendosi all’aumentare del regime di rotazione, cambiavano il posizionamento angolare della camma sull’albero del ruttore
Per circa trent’anni il variatore centrifugo di anticipo è stato impiegato universalmente sui motori a quattro tempi di serie. Era costituito da due masse fulcrate, con relative molle di contrasto che, aprendosi all’aumentare del regime di rotazione, cambiavano il posizionamento angolare della camma sull’albero del ruttore

In un passato ormai lontano sul manubrio delle moto c’era un manettino per mezzo del quale il pilota poteva cambiare, tramite un cavo flessibile, il posizionamento del piatto del ruttore e quindi variare l’anticipo.
Poi sono arrivati i variatori centrifughi, che si sono imposti rapidamente sui modelli di serie (e che hanno dominato la scena per circa un trentennio, fino alla comparsa delle accensioni elettroniche). All’anticipo fisso, ossia iniziale, si aggiungeva così quello automatico, che al di sopra di un dato regime portava la fasatura di accensione al valore finale.

Il variatore di anticipo centrifugo, costituito da due masse fulcrate con le relative molle, cambiava il posizionamento angolare della camma del ruttore sull’albero ove era montata. Da un certo regime in su l’anticipo non variava più, rimanendo fisso sul valore massimo. Non serviva aumentarlo ulteriormente perché al crescere della velocità di rotazione la turbolenza diventa più intensa e ciò determina un aumento della velocità di combustione (il motore sotto questo aspetto può dunque essere ritenuto in una discreta misura “autocompensante”).
Non era proprio il massimo della vita, ma i risultati erano soddisfacenti. Le mappature, che avrebbero migliorato la situazione rendendo ottimale l’anticipo a qualunque regime, non erano ancora entrate in scena…

A differenza di quanto accadeva in campo automobilistico, un adeguamento della fasatura di accensione alle diverse condizioni di carico motore (ovvero alle diverse aperture della valvola del gas) sulle moto non veniva ritenuto necessario. Nelle auto invece si impiegava una capsula pneumatica collegata al collettore di aspirazione, che agiva sul piatto del ruttore (ove erano montati i contatti), in aggiunta ovviamente al variatore centrifugo.

In questa foto del motore di una Morini Settebello 175 si possono notare, in uscita dall’alloggiamento del ruttore, il filo elettrico collegato alla bobina di accensione e il cavo flessibile dell’anticipo manuale, che collegava il piatto del ruttore stesso al manettino sul manubrio
In questa foto del motore di una Morini Settebello 175 si possono notare, in uscita dall’alloggiamento del ruttore, il filo elettrico collegato alla bobina di accensione e il cavo flessibile dell’anticipo manuale, che collegava il piatto del ruttore stesso al manettino sul manubrio

Il controllo e l’eventuale regolazione della distanza tra i contatti del ruttore (nel punto di massima apertura) e dell’anticipo di accensione dovevano essere effettuati con notevole frequenza (negli anni Settanta in genere ogni 3.000 o 5.000 km). A causa dell’usura del pattino in fibra la distanza tra i contatti poteva ridursi con il passare dei chilometri; inoltre si potevano verificare fenomeni di usura o danneggiamenti.

Occorreva quindi misurare e poi regolare l’apertura dei contatti ma le variazioni di quest’ultima comportavano un cambiamento dell’istante in cui scoccava la scintilla. Era pertanto necessario, dopo questa operazione, controllare l’anticipo di accensione ed effettuare le opportune regolazioni variando la posizione angolare del piatto, dopo avere allentato le viti di fissaggio. Poi occorreva ricontrollare la distanza tra i contatti, che poteva avere subito variazioni a causa del riposizionamento del piatto. Sembrava tutto facile (anche se un poco laborioso) e lo era, se c’erano gli appositi segni di riferimento. In varie moto però essi mancavano…

Nei motori a due tempi di norma non c’era un variatore e di conseguenza l’anticipo era fisso. I motori di questo tipo infatti sono decisamente autocompensanti: al crescere del regime la combustione diventa più rapida.
Questo perché non solo cresce la turbolenza della miscela aria-carburante, ma migliora anche il lavaggio e nel cilindro al termine della fase di travaso rimane quindi una minore quantità di gas combusti a diluire la carica.

Siccome il foro per la candela in questi motori di norma è al centro della camera di combustione ed è allineato con l’asse del cilindro, spesso l’anticipo non veniva indicato in gradi di rotazione dell’albero a gomiti (come nel caso dei 4T) ma in distanza del pistone dal punto morto superiore. Era cioè espresso in millimetri e non in gradi.
Per effettuare il controllo occorreva allora impiegare un comparatore montato su un supporto che veniva avvitato nel foro per la candela.