Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su [email protected]
I motori delle MotoGP Ducati, Honda e KTM e i Desmosedici stradali della casa bolognese sono dei veri V4, con un angolo di 90° tra le due bancate (una inclinata in avanti e l’altra all’indietro, più o meno simmetricamente rispetto alla verticale).
I quadricilindrici della lunga e fortunata serie delle Honda VF e VFR hanno sempre avuto tale razionale architettura. In questa sede però ci occupiamo degli schemi e delle soluzioni meno usuali e quindi parliamo dei motori a L, ovvero a V di 90° ma con due cilindri orizzontali (o quasi) e due verticali (o quasi).
Vari anni prima che entrasse alla Ducati l'ing. Taglioni aveva tracciato i disegni di massima di un motore di 250 cm3 con questo schema. L’architettura a L la ha poi ripresa nel 1963 per realizzare il motore della Apollo, una moto imponente studiata su richiesta di Berliner, importatore americano della casa bolognese, con l’obiettivo di fornirla alle forze di polizia USA.
Questo quadricilindrico a L, raffreddato ad aria e con distribuzione ad aste e bilancieri, aveva una cilindrata di 1260 cm3 (alesaggio e corsa = 84,5 x 56 mm). Non è mai entrato in produzione, anche se i due esemplari costruiti si sono rivelati più che validi.
Pare che i pneumatici dell’epoca non fossero adeguati alle sollecitazioni generate dal peso cospicuo e dalle prestazioni esuberanti del motore. E poi i costi di industrializzazione di un progetto del genere erano molto alti e i numeri di vendita previsti tutt’altro che elevati…
Nel 1981 Taglioni ha progettato un altro quadricilindrico di grossa cilindrata, che è stato realizzato ma non è uscito dallo stadio di prototipo, pur avendo fornito ottimi risultati al banco.
Questo motore di 1000 cm3 poteva essere considerato in pratica il risultato dell’accoppiamento di due bicilindrici Pantah (e infatti è passato alla storia come “Bipantah”). Raffreddato ad aria aveva la distribuzione monoalbero a due valvole con comando a cinghia dentata; rispetto al bicilindrico 500 adottava misure più radicali, con un alesaggio di 78 mm e una corsa di 52 mm. La struttura era a L, leggermente ruotata all’indietro.
Un motore a quattro cilindri con architettura a L lo ha realizzato anche la Suzuki nel 1967 per la sua RS 67.
In questo caso si trattava di un due tempi di 125 cm3 raffreddato ad acqua ed erogante 42 CV a 12500 giri/min. Questa moto, dotata di ammissione a disco rotante, ha corso una sola volta, prima che la casa si ritirasse dalla scena agonistica.
Pure la cecoslovacca CZ ha scelto lo stesso schema costruttivo per la sua 350 da GP, una quadricilindrica raffreddata ad aria con distribuzione bialbero a quattro valvole. Nel 1969 questa moto erogava 52 CV a 13000 giri/min. La MV Agusta tricilindrica e le Yamaha bicilindriche andavano però più forte…
Per concludere il discorso relativo ai quattro cilindri non si può non accennare a una ardita proposta di Lino Tonti, che prevedeva una architettura a doppia V. Il motore avrebbe dovuto essere il risultato della unione di due bicilindrici a V Guzzi della serie “piccola” piazzati uno dietro l’altro, come si può notare nella foto del manichino, da me scattata diversi anni fa a Varese nell'abitazione del famoso progettista.
La Honda ha realizzato due motori a cinque cilindri per le sue moto da competizione, negli anni Sessanta e all’inizio degli anni Duemila. Nel primo caso l’architettura era in linea, il raffreddamento ad aria e la cilindrata di 125 cm3.
Nel secondo si trattava di una MotoGP, la RC 211 V con raffreddamento ad acqua e una struttura a V di 75,5°. Queste moto hanno vinto uno e tre mondiali a testa (rispettivamente nel 1966 con Luigi Taveri, nel 2002 e 2003 con Valentino Rossi e nel 2006 con Nicky Hayden).
Una moto con cinque cilindri a ventaglio è stata costruita attorno al 1908 dalla francese REP. Ho il forte sospetto che si sia trattato di un esemplare unico…
Con la Megola il tecnico Fritz Cockerell ha realizzato qualcosa di assolutamente fuori degli schemi. Si trattava infatti di una moto a trazione anteriore e dotata di un motore radiale di 640 cm3, installato nella ruota.
Il bello è che mentre il basamento e i cinque cilindri giravano in avanti, l’albero a gomito girava all’indietro. A collegare quest’ultimo alla ruota provvedeva un gruppo epicicloidale che assicurava la necessaria riduzione e l’inversione del senso di rotazione. La distribuzione era a valvole laterali.
Non vi era alcuna frizione e quando la moto si arrestava il motore si spegneva. La Megola è stata prodotta a Monaco dal 1921 al 1925 in circa 2.000 esemplari.
L’idea di incorporare nella ruota un motore con i cilindri disposti a stella non era inedita; in precedenza c’erano stati un paio di esempi, ma si trattava di quella posteriore.
Addirittura una delle primissime moto costruite, la francese Millet del 1893-94 aveva un motore il cui basamento costituiva il mozzo mentre i cilindri costituivano cinque delle dieci razze della ruota. Gli esemplari prodotti sono stati ben pochi.
Allo stadio di esemplare unico (o forse solo di proposta) è rimasta invece la Rivierre del 1902, che nella ruota posteriore incorporava un motore rotativo a quattro cilindri.
Più che altro a titolo di curiosità e per completare l’argomento, inserisco in questo articolo la Verdel con motore stellare a cinque cilindri. Un esemplare è esposto nello splendido museo di Sammy Miller. Chi l’ha venduta assicura che è una copia esatta di una moto rarissima costruita a suo tempo in Francia, forse per le corse nei velodromi.
Miller la data attorno al 1912 e per la parte ciclistica ci saremmo anche, ma per il motore a cinque cilindri di 750 cm3 davvero no. Negli anni Dieci del XX secolo c’erano i motori rotativi, sviluppati per impiego aeronautico, ma gli stellari saranno stati due o tre, mai entrati in produzione di serie.
Quello montato sulla moto è dotato di cilindri in lega di alluminio e non può essere stato realizzato prima degli anni Venti. In quanto alla marca, non se ne trova traccia né nei libri d’aviazione né in quelli di moto. E il progettista dei motori rotativi Le Rhone si chiamava comunque Verdet, non Verdel, e non ha mai disegnato stellari.
Insomma, rimane il dubbio se si tratti di una ardita replica o di un falso clamoroso. E qualcuno parla di una originale dimostrazione di capacità ingegneristica (“engineering exercise”) risalente a pochi anni fa. Non so perché, ma mi vengono in mente le teste di Modigliani…