Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su [email protected]
Da diversi anni a questa parte i piloti impegnati nel mondiale si possono vedere, oltre che in azione, più che altro in sala stampa prima e dopo la gara.
I meccanici e i vari tecnici specializzati in telemetria e elettronica agiscono all’interno di box luminosi, moderni e ben verniciati, nei quali al massimo possono mettere piede gli operatori televisivi e qualche fotografo. Di interventi meccanici ne vengono fatti ben pochi (quelli sui motori vengono eseguiti presso la casa) e comunque ben lontano dagli occhi dei tecnici degli altri team, per non parlare di quelli dei non addetti ai lavori.
Insomma, anche se si ha accesso al paddock, non si vede un bel niente. Hospitality, belle ragazze che ti offrono da bere, ma di moto da competizione e di relativi addetti, neanche l’ombra. In sala stampa ci sono i video per mezzo dei quali si può seguire ogni fase della corsa, in qualunque punto del circuito. La copertura è praticamente totale e quindi non ci sono zone nelle quali vai-a-sapere-cosa-succede. Tipo una parte del percorso all’interno del bosco, nella quale magari entrano due piloti ma ne esce uno solo (ogni riferimento a Read e a Lansivuori è puramente casuale).
E niente spazio per quelle che il grande Walter Villa chiamava malizie. Le scorrettezze oggi le vedono milioni di persone, anche quelle che fanno il tifo per Marquez.
La iperspecializzazione, che si sta diffondendo in misura sempre crescente anche in altri settori, dà e toglie allo stesso tempo. Consente di ottenere prestazioni più elevate, ed è questo l’obiettivo per i mezzi da competizione e per i modelli più sportivi. La cosa è molto apprezzata dai piloti (i quali a differenza di molti colleghi del passato le mani non se le sporcano di certo lavorando sulle moto e in diversi casi non hanno che vaghi rudimenti in fatto di meccanica) dato che i cavalli a disposizione sono tanti ma sempre gestibili.
Lo spettacolo dovrebbe beneficiarne, ma non sempre. Quando non c’erano controlli di trazione e le diverse mappature, che consentono di variare l’erogazione e la risposta da parte del motore, erano l’abilità e la sensibilità del pilota a gestire le impennate e gli slittamenti laterali della ruota posteriore in uscita di curva; ciò forse rendeva alcune fasi delle gare più spettacolari rispetto ad oggi.
Che una specializzazione sempre più spinta faccia abbassare i tempi sul giro ma tolga anche qualcosa è evidente all’interno del reparto corse, dove i meccanici una volta facevano tutto: ognuno di loro sapeva infatti intervenire sia sul motore che sulla ciclistica, sempre sfruttando al massimo le sue capacità e la sua esperienza. Poi nei team ufficiali a un certo punto hanno iniziato ad apparire tecnici che si occupavano solo delle sospensioni, delle ruote e del telaio, mentre altri intervenivano esclusivamente sui motori.
Questa situazione è andata avanti a lungo ma ha segnato comunque l’inizio della specializzazione.
Dall’esterno arrivavano aiuti da parte dei tecnici di aziende che fornivano prodotti come lubrificanti, carburanti, candele, catene e carburatori. Ciò non accadeva per i pneumatici, che erano uguali per tutti (e che non cambiavano, indipendentemente dal fatto che si corresse sull’asciutto o sul bagnato). Nel parco macchine era usuale imbattersi nello specialista della Champion (che negli anni Cinquanta e Sessanta forniva le candele a quasi tutte le moto, eccezion fatta per quelle giapponesi ufficiali); era munito di un oftalmoscopio, mediante il quale esaminava elettrodi e piede dell’isolante, e quindi emetteva il suo verdetto, consigliando eventuali “aggiustaggi” della carburazione o altro. Niente telemetria ma solo indicazioni da parte dei piloti per le regolazioni e le eventuali modifiche (come ad esempio quelle dei rapporti del cambio), che venivano effettuate sul posto.
Fino a non molti anni fa in molti casi i box erano piuttosto spartani. Non di rado le pareti non erano intonacate ma avevano i mattoni a vista. Nel paddock, all’interno degli spazi riservati alle case, sotto tende piazzate nel parco macchine o in grossi furgoni debitamente attrezzati, era possibile effettuare interventi meccanici molto sostanziali, come l’intera revisione dei motori, con sostituzione di componenti come alberi, pistoni etc…
Ancora attorno alla metà degli anni Ottanta chi entrava nel parco macchine poteva sbirciare nella tenda di qualche squadra ufficiale. Ad esempio, in quella della Honda, da poco rientrata nei Gran Premi, si potevano vedere (a debita distanza) gli uomini del team che dopo aver tolto teste e cilindri della 500 controllavano i pistoni con l’ausilio dei liquidi penetranti (tre bombolette: solvente, penetrante ed evidenziatore).
Adesso non si effettua in pratica alcun intervento sostanziale. Sui motori e sulle frizioni non si eseguono operazioni meccaniche “sul campo”. Le cose stanno un poco diversamente per la ciclistica, ma nel paddock o all’interno dei box, a saracinesca chiusa, in pratica si fanno solo regolazioni e controlli.
Questa corsa verso una specializzazione sempre più spinta fa inevitabilmente pensare che il riduzionismo stia trionfando sull’olismo. Nel motorismo da competizione oggi serve una conoscenza straordinariamente profonda di ogni singolo aspetto, per ottenere la quale si studia, si sperimenta e si lavora duramente per anni e anni, senza uscire da quell’ambito specifico. Poiché il tempo a disposizione è invariato, è lecito chiedersi come possa non risentirne l’ampiezza della visione complessiva di ciascuno. Forse la conseguenza di un sempre maggiore approfondimento in un determinato settore è un restringimento del campo di conoscenza globale. Dunque, da un lato si guadagna e dall’altro si perde. Ma a quanto pare così va il mondo e non solo in campo motoristico.