Nico Cereghini: "Appesi a un filo"

Nico Cereghini: "Appesi a un filo"
Quando arrivano giornate come quelle delle prove al Sachsenring, i piloti sembrano degli incoscienti che si giocano la vita. E non sono così. Il rischio e il ricordo di un’altra pagina terribile del nostro sport | N. Cereghini
16 luglio 2013

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Ciao a tutti! Per fortuna le gare sono passate via abbastanza lisce, ma guardando le prove del Sachsenring, con tutte quelle brutte cadute, c’era da spaventarsi parecchio. Lorenzo a casa di corsa, Crutchlow ferito e acciaccato, Pedrosa completamente annichilito e poi Dovi, Iannone, Hayden e tutti gli altri: ogni curva a destra diventava potenzialmente una trappola infernale, ogni pilota pareva a rischio e il tempo non passava più. Quando arrivano giornate così il nostro sport non mi piace per niente, perché i piloti sembrano appesi a un filo. Il rischio fa parte del mestiere, naturalmente, ma in questi casi un pilota di moto appare –agli occhi del grande pubblico- come un folle incosciente che si butta in pista ad occhi chiusi, o la va o la spacca. E noi sappiamo bene che non è così.

Come al Mugello nel 1976. Quella volta, era metà maggio e si correva il GP delle Nazioni, Otello Buscherini e Paolo Tordi caddero come altre decine e decine di piloti, ma alle loro famiglie non tornarono mai più. Fu un’immensa tragedia. A quell’epoca la pista toscana aveva già un tracciato bellissimo, quello di oggi, ma aveva spazi di fuga troppo esigui e file di pali di legno a sostenere le reti di contenimento. In mancanza di spazi si usava così, modello Castellet. Buscherini alla Arrabbiata 1 e Tordi alla Biondetti 1 non arrivarono fino ai guard-rail, ma si ammazzarono contro quei maledetti pali, che erano troppo robusti e troppo vicini all’asfalto. Si discusse sulla pista, che era moderna, era nata soltanto due anni prima, ma aveva già evidenziato i suoi limiti, e sulla causa di tutte quelle cadute. Novanta voli: io caddi con la mia Suzuki 500 RG sia il sabato sia la domenica in gara.

I piloti non sono appesi a un filo, non affidano la loro vita alla roulette russa. Il nostro è un vero sport, vuole passione, talento e molto impegno

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L’ipotesi più diffusa dava la colpa alle gomme, quella volta la Michelin aveva portato le prime slick per tutti; ma addirittura, tempo dopo, circolò la voce che nella cisterna sotterranea del distributore si fossero verificate infiltrazioni d’acqua. Plausibile: quasi tutti si faceva carburante in circuito e l’acqua, diluita con la miscela, poteva effettivamente aver provocato un numero enorme di grippaggi. Io posso testimoniare che fu una babele. Sabato ero volato in prova alla Bucine per il grippaggio di un pistone; domenica caddi alla fine del primo giro per il grippaggio di tre pistoni su quattro, appena tolsi la sesta a 250 all’ora per la staccata della San Donato. Ebbi molta fortuna, ero decimo, ne avevo dietro una ventina e nessuno mi investì, dopo l’high-side rotolai fino al sabbione quasi senza danni. Mi fecero montare sull’ambulanza perché avevo una mano ferita, ma dopo due curve mi invitarono a scendere per far posto a Michel Rougerie e a un altro pilota, messi molto peggio di me. La sera fui interrogato da un magistrato: volle sentirmi perché avevo scritto un articolo, su un settimanale di allora, circa la pericolosità di quei pali e le richieste inascoltate dell’associazione piloti. Non ebbi più notizie dell’inchiesta.

Ecco, tutte le volte che arrivano giornate come il Sachsenring io da una parte mi compiaccio perché le piste, con il lavoro di anni, sono diventate (per quanto possibile) sicure. Ma mi amareggia molto verificare che basta poco per dare del nostro sport un’idea completamente sbagliata. I piloti non sono appesi a un filo, non affidano la loro vita alla roulette russa. Il nostro è un vero sport, vuole passione, talento e molto impegno. Naturalmente, ogni tanto salta fuori anche la follia, è umano. Ma raramente paga.

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