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Alla metà degli anni Settanta c’è una Casa davvero in gran forma: la Yamaha. E due modelli hanno fatto la storia di quel decennio: prima la RD 350 del ‘73, la bicilindrica a due tempi. Rispetto alle CB Honda o alla Morini tremmezzo era un altro pianeta: raffreddata ad aria, 39 cavalli a 8.500 giri, 165 all’ora, aveva l’ammissione lamellare prima ancora delle GP! Poi due carburatori Mikuni da 28, cambio a cinque marce e poco dopo a sei, lubrificazione separata Autolube, avviamento a pedale con una sola scalciata, freno a disco davanti e tamburo dietro. Era un po’ vuota sotto, ma pepata, e che bel sibilo!
Tra l’altro, alla fine del ’75 fu allestita in Italia la versione “Ceccottina” (manubrio basso e serbatoio speciale) per festeggiare il titolo dell’italo- venezuelano Johnny Cecotto: quel pilota fenomenale che esordì nel mondiale con le Yamaha-Venemotos dell’importatore Ippolito e subito, giovanissimo, fu iridato della 350 nel 1975 ai danni di Ago; e poi nel ’78 avrebbe conquistato anche la 750 prima di passare alle auto. So che ci segue: ciao Johnny! Dal ’76 la cilindrata della nostra RD salirà a 400, dal ’79 la seconda serie raffreddata a liquido.
Ma intanto era già apparsa la XT 500 del 1975, l’altra Yamaha, un vero mito. Motore mono 4T monoalbero, lubrificazione a carter secco, cinque marce, 30 cavalli a 5.800 giri, 140 kg e 150 orari. Moto di enorme successo, 130.000 pezzi comprati solo in Europa! Era bella, non una enduro da competizione ma piuttosto una scrambler per i viaggi, pacifica e longeva. E siccome l’avventura tirava, e nascevano i primi rally africani, la XT si prestava e divenne leggenda: subito trionfo nel 79 e nell’ 80, nelle prime due edizioni Parigi-Dakar, con Cyril Neveu. Una moto che faceva tanta strada e dava zero problemi, quella di serie, in produzione fino all’89. Dall’80 con il serbatoio d’alluminio. E poi 550.
In Italia nasceva proprio in quegli anni la Bimota di Rimini. Massimo Tamburini era fin da allora l’artista, i suoi telai vere opere d’arte: prima fece una Honda CB 750 allestita per ricostruire quella incidentata alla Quercia di Misano; era la HB1, una decina di esemplari soltanto; in seguito ecco la SB2 del 1977 con il motore Suzuki 750, dapprima con il serbatoio sotto il motore e gli scarichi sopra, poi più tradizionale. Negli anni Ottanta la Bimota vincerà i titoli mondiali con Eckerold nella 350 e Ferrari nella F1. E seguiterà per tanti anni, con Morri e Tamburini, la sua produzione speciale.
Mike Hailwood è scomparso nel 1981, in un incidente stradale alla periferia di Londra, oggi avrebbe settantadue anni. Lui è stato il mito degli anni Sessanta, nove titoli mondiali in tre classi. A vent’anni campione della 250, fu scritturato dal conte Agusta per le due classi più importanti, 350 e 500 in sostituzione del grande Surtees. E con le MV Mike vinse tutto quello che si poteva vincere, quattro volte di seguito campione del mondo della 500, prima di passare il testimone al giovane Ago. Allora saltò sulle Honda, la 500 potentissima ma telaio debole, e fu ancora capace di centrare due doppiette consecutive sulle moto giapponesi: 250 e 350, ‘66 e ’67, e vincere otto gare in 500.
Poi, a sorpresa, la Honda si ritirò dalle corse. Allora Mike passò alla F1 dove fu fermato da un brutto incidente, ma vinse il titolo europeo di F2, e infine tornò sulla moto, al TT nel ’78. Ecco l’impresa che lo rende mito pure degli anni Settanta. Aveva già trentotto anni, era giù di forma, aveva la pancetta, pochi
Con il “pompone” Ducati, la celebre SS 900 preparata dalla NCR, 87 cavalli, trionfò nella classe più vera, la F1, facendo piangere tutti
capelli e una gamba mezza bloccata, ma il Mountain Circuit se lo ricordava bene e con il “pompone” Ducati, la celebre SS 900 preparata dalla NCR, 87 cavalli, trionfò nella classe più vera, la F1, facendo piangere tutti. Il suo duello con Phil Read e la Honda ufficiale è roba da antologia. Nel museo Ducati la sua moto è assolutamente da vedere.
La Ducati, che aveva allora nello Scrambler del ’68 (da 250 a 450) il modello più carismatico e diffuso, fece nell’80 la MHR 900, versione sportiva della bruttina Darmah. Bella, la Replica, ma ancora poco affidabile. Le altre case diversificarono di più: la Guzzi con la 850 Le Mans che abbiamo già visto, ma anche con la Hydroconvert 1000 con una sorta di cambio automatico, e poi le piccole V 35 e V 50 del ’76; la MV con la Ipotesi 350 e la ben più fascinosa 750 S Sport America, rarissima. Laverda era però il marchio più attivo e coraggioso: la tre cilindri 1000 del ‘72 aveva un motore poderoso e il comando idraulico della frizione per aiutare un po’.
Tre anni dopo fu realizzata anche la versione corsa per le 24 Ore, con un telaio speciale a traliccio: una moto che mi sono goduto da pilota ufficiale nel ’75. Nessuna vittoria ma il secondo posto nella 24 Ore di Spa Francorchamps con Gallina, il terzo alla 1000 km del Mugello con Brettoni, un Bol d’Or tra i protagonisti. E proprio i fratelli Laverda azzardarono la moto più incredibile degli anni Settanta: la 1000 sei cilindri a V, praticamente mezzo motore Matrà 12 cilindri da F1, progettata dall’ing. Alfieri. Purtroppo tirava vento di crisi per l’azienda veneta che aveva troppi azionisti: nonostante i suoi 130 cavalli e il suono meraviglioso, la V6 si spense subito dopo l’unica corsa, il Bol del ’78.