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Ciao a tutti.
Ricordate? Dopo avervi proposto un mio breve racconto, ed era la prima settimana di dicembre, vi avevo invitato a mandarne uno vostro, di oggetto motociclistico come era il mio.
Se ne aveste avuto la voglia, e senza impegno. Ebbene, siete stati tanti a scrivere un racconto e inviarcelo in redazione.
Lo immaginavo: l’Italia è ricca di talenti e di scrittori. Più di un centinaio di voi ha risposto al mio invito! E tutti quelli che l’hanno fatto, hanno mandato racconti inediti, che riflettono impegno e passione.
Bravi! Molto bravi!
Premiare il migliore non è stato facile. Mi sono anche consultato con tutta la redazione per venirne a capo. E poi, naturalmente, non è detto che il migliore per noi sia il primo in assoluto.
Ad ogni modo abbiamo escluso quelli troppo lunghi (alcuni sono veri romanzi! E meno male che avevo precisato “breve”) quelli decisamente troppo brevi (il più bonsai è di sole quattro righe), quelli in lingua straniera (perché ci sono anche quelli).
Oggi pubblichiamo due lavori. Sono i due racconti che occupano a mio giudizio, e a pari merito, il terzo gradino del podio. La prossima settimana potrete leggere il racconto secondo classificato, e la settimana successiva mostreremo finalmente il racconto scritto dal vincitore assoluto: che, avvertito per tempo, verrà a trovarci in redazione a Moto.it e che vedrete fotografato in tutte le salse in mezzo a noi.
Magari, se vi va, potremmo anche ripetere l’iniziativa alla fine dell’anno. Sempre senza impegno reciproco, tanto per passare il tempo e dare uno sbocco alla nostra passione artistica. Viva la moto e viva anche l’arte!
Nico Cereghini
Si sperava di incrociare qualche auto, meglio un trattore, più lento, più grosso. Perché in quel punto lì, dove il "corso" del paese diventava un vicolo in due non si passava. Con una manciata di minuti buoni di manovre millimetriche la corriera accostava tantissimo al muro a secco e dall'alto del finestrino si poteva intravvedere, dentro il cortile, un pezzo di manubrio con il traversino, una leva mezzo piegata, parte della gobba del serbatoio. Stava appoggiata immobile da chissà quanto e manco sapevo, e nessuno di noi lo intuiva, cos'era. Si, qualcuno faceva finta di saperla lunga e sparava ma insomma boh. Pure io, quel colore verdino pallido sbiadito dal sole e dal freddo e dagli acquazzoni, qualcosa mi suggeriva. Stava lì ed era un peccato. Di chi era? Si poteva vedere? E ripristinarla? Non era roba nuova questo è certo.
C'era il solito che "mio fratello col Beta e gli RG" e quell'altro testa radiale che, accortisi dell'attenzione, del corteggiamento e quasi innamoramento, si facevano beffe. Catorcio, pezzo di latta, quella roba che non andrà manco in discesa e ci metti più soldi e tempo a metterlo insieme che a comprarti una moto nuova vera. Le moto vere avevano i "parafanghi che volano" - come diceva la mia vicina di casa - marmitte a spillo, sospensioni lunghe, molte marce, bei colori. Ma per me e quasi nessun altro era una moto vera anche quella dietro il muro, intuita più che vista; con un serbatoio da stringere, una sella da montare e una frizione da accarezzare. Già tanto rispetto ai monomarcia e biciclette con un motore sotto.
Tutto il resto sarebbe potuto arrivare: uno scarico a espansione, un carburatore da 19, inclinare sospensioni e una vernice nuova. Bianca come il Beta o nero lucido come il Caballlero? O gialla come lo Scarab? "Ma non è lo Scarab" mi pareva di sentirli. Pioveva che dio la mandava: rivoli lungo la strada, il muro fradicio, la fatica dei grandi tergicristallo. Un inverno così e manco un telo. Ci sarebbe stata più ruggine da scartavetrare. Con il biancheggiare e roseggiare di mandorli e peschi e la prima mostra di roba tornita delle compagnette però...La misconosciuta doveva diventare conosciuta. Libera era libera, anzi abbandonata, bisognosa di cure. Bisognava sottrarla a chi non se ne importava nulla.
Senza dire nulla ai testa radiale che già scorrazzavano rumorosi o dicevano di scorrazzare rumorosi a far conquiste gentili e impennate chilometriche e salti da antilope sugli ammortizzatori a gas. Solo agli amici pochi e fidati. Senza il becco di un quattrino (o comunque pochi, maledetti e sudati in estati bollenti a raccoglier fieno e impastar cemento), un po' sognatori e progettisti specializzati in tempi migliori. "Quanti chilometri saranno?" , "Boh, una quindicina forse venti", "No di più e al ritorno ci sono le salite", "Si ma l'abbiamo già fatto e si rifà". Biciclette. Ormai non facevamo più brum brum con la bocca, non più figurine da calcio infilate nei raggi per fingere un motore e non si tirava un freno come per cambiare una marcia rischiando l'osso del collo. Ma avevamo le Graziella e con quelle - parafango posteriore tagliato, 100 saltature e altrettante mani di colore fatte col pennello - bisognava andare. Giorni prima l'avevo immaginata in un disegno. D'orgoglio avevo anche immaginato le sfide e guai ai vinti.
"Buongiorno". Aria interrogativa sospettosa della signora. "Lei..Voi...Qui in casa sappiamo avete una moto e volevamo sapere se la vendete". L'aria interrogativa sospettosa muta in aria interrogativa sorpresa. "Quale? Ah si...Eh, ma è ferma da molto e non so. Lui la usava per andare in campagna, lui...mio marito".
Una vedova. Anzi due. Ma a noi interessava quella del cortile: "La possiamo vedere?". L'aria interrogativa sorpresa si evolve in aria interrogativa stupita. Forse aveva ragione "mio fratello col Beta e gli RG" e tutti i testa radiale: doveva star proprio male. Eccola: "cross" a esser buoni. Con i parafanghi che volano, bassi, e intarsiati di ruggine. M..to Guz... C'era scritto e un'aquila con un'ala sbrindellata dal sole, dall'acqua, dal tempo. Però eh? Ci avevo preso. E mi aveva preso.
di Carlo "Kiddo" Nannini
Usciamo dal bosco, inseguiti dalla nuvola di polvere che abbiamo sollevato, e dentro alla quale abbiamo sepolto una coppiettina con una tranquilla enduro stradale. Caldo, sudore che si impiastriccia con l’imbottitura del casco e cola in rivoli dentro la tuta di pelle. Il 530 del Tm vorrebbe un paio di tornanti da aggredire, e io lo lascio pistonare per la paura che mi scappi l’anteriore a ogni curva: la sterrata è secca e i sassi si muovono sotto le nostre gomme lisce. Finalmente arriviamo all’abitato di Fornazzano e ci fermiamo a tirare un po’ il fiato, con la scusa di guardare il cartellone con la mappa del territorio e confrontarla con la cartina che Samurai si stampa prima di ogni uscita. La coppietta intanto ci raggiunge, ci scambiamo un cenno di saluto e proseguono. Giubbino leggero, casco aperto, jeans e scarpe da ginnastica. Trotterellano pacifici, con tanto di coperta legata al portapacchi.
“la mamma non mi lascia venire in Vespa con te, perché hai sempre quella coperta legata dietro”
Credo che fosse una vignetta di Disegni… Mi scappa da ridere mentre spolvero gli occhiali da cross.
Un paio di minuti e rifacciamo scricchiolare le giunture per salire in sella. Ci lanciamo a capo basso masticando col gas aperto i tornantini sporchi di brecciolino della ripida discesa verso Marradi. Della velocità, delle staccate al limite e dell’anteriore che passa più tempo a guardare il cielo che a terra facciamo poesia, filosofia di vita, espressione d’arte come antichi eroi pronti a qualsiasi battaglia; danziamo insieme alle nostre cavalcature, scomode e impolverate, verso nuove vittorie.
Durante uno spettacolare monoruota ripasso l’espressione stessa della mediocrità: la coppietta di prima, che trotterella senza fretta, gustando il panorama.
Ferracci pronto gara come i nostri, pretendono soste frequenti per rifornimento, e raffreddiamo i bollenti spiriti di un luglio infuocato al primo distributore, provando a sentire se da fermi si sente quel minaccioso rumorino proveniente da una qualche parte, la sotto, del motore.
La coppietta intanto prosegue la scampagnata, e ci ripassa sulla strada accanto.
Ma i veri uomini con le palle siamo noi. La nostra è una missione che va al di là del divertimento, del gusto che deriva dall’assaporare la velocità. Chiudendo la vena e presi dalla foga però, riusciamo persino a sbagliare strada. Presa rapidamente coscienza dell’errore ritorniamo sul nostro itinerario, dove mi immagino ritroveremo presto la patetica coppietta, caricatura della figura del motociclista vero, immeritevole di ogni gloria. Invece dopo una decina di minuti non li ritroviamo a occupare indegnamente il teatro delle nostre epiche gesta ma vediamo il loro mezzo parcheggiato a un lato della strada, senza la coperta, vicino ad un ameno boschetto, ideale per un veloce infratto.
In cima al passo della Colla, mentre siamo di nuovo fermi per cercare di placare il dolore al sedere che reclama pastina Fissan a volontà, rimugino accerchiato da decine di altri uomini veri, puzzolenti di pelle, gloria e sudore, ognuno speranzoso di veder riconosciuto il proprio ruolo di eroe della manetta.
Ripenso alla coppietta, alla loro gitarella e alla felice conclusione, due curve più sotto.
E comincio a pormi un atroce dilemma: ma fra noialtri smanettoni e quello con l’enduro stradale e la coperta, chi è lo sfigato?