Nico Cereghini: “Effetto ritorno: il viaggio verso casa ci sembra più breve”

Nico Cereghini: “Effetto ritorno: il viaggio verso casa ci sembra più breve”
E’ il risultato di una ricerca giapponese: questione di aspettative, e nel viaggio di andata il tempo sembra passare più lentamente. Ma sarà proprio vero? Ricordo anche viaggi di rientro che non finivano mai. Voi che ne dite?
30 giugno 2015

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Ciao a tutti! Ho letto su Repubblica che tre ricercatori dell’università di Kyoto hanno indagato sulle illusioni temporali legate al viaggio e sostengono l’esistenza di un effetto, chiamato "effetto da viaggio di ritorno" per il quale, con qualsiasi mezzo si viaggi, l'andata ci sembra più lunga del ritorno anche se il tragitto è esattamente lo stesso. I tre spiegano che sono le aspettative a plasmare la percezione del tempo trascorso, fino a farci uno scherzetto non da poco: ingannati dalla nostra mente, ci sbagliamo sull'effettiva durata del tempo che passa. Tutto questo varrebbe soltanto se ci sono due condizioni di base: la consapevolezza che ci sarà un ritorno e la non ripetitività del tragitto. Per i pendolari non vale, occorre andare da qualche parte per la prima volta e poi tornare indietro consapevoli che di ritorno si tratta.
 

Soltanto una stupidaggine? Oltretutto pare che in passato altre ricerche abbiamo dato un risultato opposto, e qualcuno ha sostenuto che ci sembra più lungo il ritorno. Questi ricercatori, per inciso, devono essere un po’ a corto di argomenti. Personalmente sono consapevole che il viaggio in un posto nuovo, con la necessità di badare alla strada, alle indicazioni e al contakm, mi chiede una notevole concentrazione. Al ritorno, se farò lo stesso percorso, sarò certamente più rilassato, meno attento al contesto, e molto probabilmente avrò la sensazione di metterci meno tempo anche senza guardare l’orologio per verificarlo. E quindi sarei portato a dare ragione ai tre ricercatori giapponesi.


Però poi rifletto su altre condizioni e ricordo viaggi che mi sono sembrati brevi all’andata e quasi eterni al ritorno. Mi viene in mente, in collegamento col GP d’Olanda di questi giorni, quando andai per la prima volta in moto fin lassù, godendomi le vittorie di Virginio Ferrari in 500, Graziano Rossi in 250 e Eugenio Lazzarini nella 50. Era il lontano 1979, e sebbene il meteo all’andata fosse abbastanza brutto, freddo in Svizzera, pioggia e vento al Nord, mi ricordo che in un lampo ero a Zwolle a cercare la A28 per Assen. Mi ero immaginato chissà che faticaccia per fare quei 1.100 chilometri in giornata, e invece macché: la moto teneva i 170 senza sforzo, il boxer della RT 1000 frullava piacevolmente, i limiti di velocità non c’erano, il tachimetro girava impazzito e la pioggia manco mi bagnava con la magnifica carenatura che avevo. Il ritorno invece, sebbene ci fosse il sole e pure un compagno di strada, un amico di Milano che avevo incrociato al circuito con la sua moto e la tendina, mi parve non finire mai. Forse non avevo nessuna voglia di tornare in redazione a La Moto, forse ne avevo piene le tasche dell’autostrada, chissà.


Ai ricercatori giapponesi direi di non sentirsi troppo sicuri dei risultati. E poi aggiungerei una considerazione. Teneteci fuori dalla vostra ricerca, perché noi motociclisti non siamo mica fessi e raramente, soltanto se costretti, torniamo a casa sulla stessa strada. E voi, che ne dite?
 

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