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Ciao a tutti! La strada è la più classica delle metafore della vita, si sa, anche se molti modi di dire andrebbero rivisti. Per esempio, quando per chi è in difficoltà si dice che la vita è una strada in salita non si tiene conto dei mezzi moderni con un sacco di cavalli. Non è più il tempo della Gilera 98 Giubileo o della Citroën 2 CV che arrancavano in montagna in prima o seconda, oggi un’auto di media cilindrata o una moto da 60 cavalli vanno su come saette con un filo di gas…
Però è vero che, a parte l’autostrada, ogni strada trasmette emozioni diverse, esattamente come le fasi della vita. Le strade che in montagna corrono alte in una valle stretta a me trasmettono ansia, quelle basse lungo i torrenti mi parlano di qualche tipo di avventura, quelle che corrono pigre, con le curve belle larghe in una valle aperta, mi trasmettono ottimismo. Le strade molto strette sono quelle che mi piacciono meno. Penso magari a quella che porta a Cicogna (sopra Verbania) in Valgrande. Due metri di carreggiata e pochissime piazzole, dovete andarci prima o poi, è una esperienza, ogni incrocio con un’auto è un’incognita persino per un motociclista.
E poi c’è la nostra strada e c’è la nostra curva. Tutti l’abbiamo. Da bambino passavo tre mesi l’anno in alta Valsassina, intorno ai 900 metri, nella casa dei nonni in un grande giardino pieno di piante: larici, abeti, faggi, betulle. D’estate stavamo lì, da giugno a settembre, fino alla riapertura delle scuole. In tanti mesi ne fai di cose quando hai terminato la dose giornaliera dei compiti delle vacanze: mi arrampicavo in cima ai larici, lanciavo il canto del gallo meglio di un gallo vero, fumavo le primissime sigarette, godevo di ogni sensazione, soprattutto dei suoni, amavo in particolare il canto dei fringuelli e quello delle moto.
Sotto il giardino passava la provinciale in salita, sentivo le moto – le piccole 65 come la Guzzi, le medie 125 Mondial e Morini, le “grosse” 175 Gilera - arrancare con una marcia bassa. Le moto degli anni Cinquanta erano di taglia piccola, tutte rumorose e generalmente piuttosto pigre. Una o due di queste moto si fermavano davanti al nostro cancello e restavano lì tutto il giorno incustodite, io ci ronzavo intorno, i pastori salivano a piedi all’alpeggio e scendevano soltanto a sera. Le studiavo, queste moto: infilando un chiodo nel faro imparai a creare il contatto, provai a dare qualche calcio alla leva per vedere l’effetto che faceva, per farla breve qualche giretto ci scappò anche se avevo solo dodici anni o tredici. A terra con un piede ci arrivavo bene e nessun pastore protestò.
Tornando alla strada: cento metri oltre la casa, la provinciale 67 faceva (e fa tuttora, quasi nulla è cambiato) una leggera curva a sinistra, e intanto spianava. Io correvo nel punto più alto del giardino per poterli vedere: i motociclisti sparivano alla vista dietro la costa della montagna, ma sentivo che appena dopo la curva mettevano dentro una terza che sembrava un sospiro di sollievo. Finalmente il motore tirava il fiato. E forse esagero, ma mi pareva di capire bene quello che provava quel motore, di identificarmi con lui: dopo tanto sforzo un po’ di riposo, il rettilineo pianeggiante e in ombra, l’aria fresca. Credo che proprio lì, in quegli anni, sia nato il mio rapporto con la moto: che non è una cosa tecnica - purtroppo nessuno mi ha insegnato a smontare e rimontare un motore e non saprei nemmeno da che parte cominciare - ma una cosa fisica. E’ come se potessi, se mi passate la presunzione, capire profondamente ogni motore. Ne conosco solo teoricamente il funzionamento, ma quello che succede dentro io lo sento, ne ho avuto diverse conferme quando correvo in pista.
Ebbene, quella curva là mi ha insegnato tutto quello che motociclisticamente so e che sono. Mi domando se anche voi abbiate un pezzo di strada, una curva, di ieri o di oggi, che in qualche modo rappresenti la vostra vita di motociclisti.