Nico Cereghini: “Tuareg, una moto e anche un popolo annientato”

Nico Cereghini: “Tuareg, una moto e anche un popolo annientato”
Gli anni Ottanta e Novanta hanno lasciato il segno: la Parigi-Dakar stimolò la nascita di moto straordinarie come le Aprilia della serie Tuareg, un mito che oggi rivive attraverso la nuova 660. Ma nel frattempo i Tuareg del Sahel sono stati sconfitti
2 agosto 2021

Ciao a tutti! Uno dice Tuareg e capisce che gli anni Ottanta e Novanta hanno lasciato il segno: dietro alla nuova 660 Aprilia che ha scatenato un bel putiferio c’è tutta una storia. C’è Ivano Beggio con la squadra dei suoi creativi (creativi veri: di oggetti concreti), c’è il fenomeno delle 125 a due tempi che hanno segnato una generazione di motociclisti, c’è il fascino dei Rally africani e soprattutto della Parigi-Dakar. I cinquantenni sanno bene di cosa parlo, gli altri sottilizzano: arriva tardi, quel doppio faro è brutto, costa tanto… Peggio per loro, si sono persi qualcosa di grosso.

Dico 125 a due tempi perché la prima Tuareg, quella che ha colpito duro, è stata la 125 dell’85. Un grande successo. Più avanti arrivarono la 350, la piccola 50 con il motore Minarelli, la 600 che andò a correre ufficialmente la Dakar con Balestrieri e Zanichelli, la 250, la 125 e 250 Rally, tutte le Wind. Una grande famiglia, uno styling riuscito, colori particolari. E un gran bel nome.

In una decina d’anni provai per la tivù almeno sei o sette Aprilia Tuareg. Era un must. Una volta, con la 125 Rally, misi in sella anche i piloti ufficiali dell’enduro Passeri e Ungaro; un’altra volta, era febbraio ed ero appena rientrato dalla Parigi-Dakar, giocammo la prova sul contrasto sabbia del deserto/neve delle nostre montagne. Mi presentai con in testa la chéche nera -la fascia tuareg lunga da cinque a sette metri che avevo imparato ad avvolgere nel modo complicato che serve- e girammo le immagini al piano del Tivano, sotto la colma di Sormano. C’era la neve e c’era anche uno skylift, ai tempi, e qualche sciatore.

Uno di loro, che pareva bravo, si offerse di partecipare al video. Vi piace se arrivo a tutta velocità e sollevo la neve in una bella frenata a sci uniti? Va bene: motore, ciack, azione! Io descrivevo questo e quello di fianco alla 600 Tuareg con la mia chéche in testa, la neve invece della sabbia, quando lo sciatore fece un volo spaventoso e piombò accanto alla moto. Riuscii a restare serio e commentai serenamente: è molto meglio coi Tuareg!

I Tuareg, il popolo degli uomini blù, i signori del deserto. Erano nomadi e commercianti, la colonizzazione francese li colpì duramente, la nascita delle frontiere li costrinse alla stanzialità. Ho conosciuto un Tuareg storico, uno che corse una edizione della Parigi-Dakar alla guida di una Range Rover. Si chiamava Mano Dayak, era nigeriano, aveva imparato l’inglese in America e si era laureato alla Sorbona di Parigi, dove trovò moglie e conobbe Thierry Sabine. Dayak disegnò per Sabine i percorsi del rally, il rally diede ai Tuareg di Dayak la visibilità: perché il popolo blu del Sahel cercava riconoscimento e autonomia, il governo del Niger si opponeva, nacque una rivolta. Mano Dayak, che era uno dei leader politici, è morto in un misterioso incidente nel dicembre del ’95. L’aereo che lo trasportava esplose al decollo da Adrar, probabile sabotaggio. Oggi non riesco a sentire il temine Tuareg senza pensare a lui e alla sua generosa battaglia perduta. E sento il dovere di ricordarlo.

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