Non sapevamo niente

Non sapevamo niente
C’era chi voleva la rivoluzione, le donne volevano la parità. Nel 1968 tutto era diverso, anche per le moto. Si andava in giro senza casco, senza guanti, con piccole cilindrate, sopra selle strette. E alla fine, ci racconta uno che c’era e che ancora oggi è un punto di riferimento, sarebbe cambiato molto il costume, quasi niente la politica
22 giugno 2018

Si andava in moto senza casco, senza guanti, figurarsi i capi tecnici. Le protezioni neanche esistevano, il casco integrale di là da venire: negli States girava il primissimo Bell Star ma da noi soltanto la scodella. E chi aveva soldi esibiva il Cromwell, mentre io usavo un casco Everest grigio metallizzato che pareva plastica. Lo stesso Agostini (qui la sua intervista), il campionissimo che compariva sui fotoromanzi e di lì a poco avrebbe girato il suo primo film (“Bolidi sull’asfalto, a tutta birra!” una commedia di Corbucci buona per le scene di gara) sarebbe passato al casco integrale solo tre anni dopo, nel 1971.

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Le nostre moto erano piccole, le selle strette che dopo mezz’ora soffrivi. Io avevo una Morini Corsaro 125 comprata usata, i miei amici giravano con l’Aermacchi 250 Ala Verde o Wisconsin e il più benestante guidava tronfio la Honda CB450 bicilindrica bialbero, 43 cavalli per 185 chili, 180 all’ora dichiarati. Giusto allora cominciavano ad apparire le Ducati Scrambler 250 e 350, ma le moto più desiderate erano le inglesi: BSA Spitfire, Triumph Bonneville, Norton Atlas e la nuova Commando che arrivò a fine anno. Le prove di Motociclismo (a firma Patrignani, Perelli, Colombo) io le imparavo a memoria; ma ad avere nel box una moto del genere erano pochi anche in una grande città come Milano: noi li conoscevamo uno per uno, sapevamo dove abitavano, cercavamo di incrociarli per chiacchierare con loro e capire cosa si provava alla guida di un bolide del genere. Non immaginavamo che tempo pochi anni le giapponesi si sarebbero mangiate quelle mitiche britanniche; e che le due prime maximoto italiane, Guzzi V7 Special e Laverda 650 GT così goffe e pesanti, nei primi anni Settanta si sarebbero evolute in grandi star internazionali.

A quell’epoca sulla Bellagio-Como seminavo le Aermacchi, la mia Morini 125 mi dava delle belle soddisfazioni ma finì distrutta a luglio in un incolpevole frontale con una Lancia Fulvia. Uscito indenne dall’incidente e superata in qualche modo anche la maturità scientifica, comprai la mia prima auto: la Fiat 500 L con i sedili ribaltabili. Per firmare le cambiali ci volevano ventuno anni, io non li avevo e feci firmare una mia sorella più grande. Nessuno aveva una precisa consapevolezza dei rischi, in tutti i campi, dal casco alla finanza.

Le protezioni neanche esistevano, il casco integrale di là da venire: negli States girava il primissimo Bell Star ma da noi soltanto la scodella. La bibbia per noi era Motociclismo, mica Mao o Fidel Castro

Il mio 1968 fu davvero un gran giro di boa: dal liceo all’Università Statale, iscritto a Scienze politiche; dalla moto provvisoriamente all’auto; e soprattutto dalla passione alla “professione”, perché a novembre diventai collaboratore di Motociclismo iniziando dai test dei cinquantini. Era stato appena lanciato il Ciao della Piaggio, subito di moda, e tra le prime moto da provare mi capitò la Guazzoni Matta 50 Regolarità: verde e gialla, conservo la foto che apriva il servizio, eskimo e casco jet nella neve. Lì cambiò la mia vita: presto avrei provato anche le moto medie e grosse, e la primavera successiva avrei girato in pista per la prima volta, sulla junior di Monza con una Ducati Desmo 250, i jeans, un giubbino di nylon e il casco Cromwell in prestito. E quell’anno cambiò anche la vita di molti giovani.

C’era un gran fermento, nelle università. Il movimento studentesco era nato in Italia due anni prima, nel 66, con l’occupazione a Trento della facoltà di sociologia per protestare contro il piano di studi e uno statuto “antidemocratico”. Curiosamente, l’occupazione si concluse con l’alluvione di Firenze a novembre: molti studenti corsero là per aiutare, e da questo incontro spontaneo tra giovani provenienti da tutta Italia nacque in molti di noi lo spirito di appartenenza a una classe studentesca. E dico noi perché a Firenze c’ero anch’io, con un amico, un furgone e quattro o cinque piccole pompe a motore per tirare su dalle cantine acqua e fango. Il segno dell’Arno arrivava ai primi piani dei palazzi del centro, da non credere, fu una settimana massacrante e bellissima.

Contestazione alla Biennale di Venezia
Contestazione alla Biennale di Venezia

Poi il 68 a Milano: la scintilla scoppiò alla Cattolica dove volevano raddoppiare le tasse universitarie, e contemporaneamente anche a Torino dove era in ballo il trasferimento delle facoltà dal centro alla Mandria. Il 15 novembre le due occupazioni, subito i rispettivi sgombri ad opera della polizia.

Le nostre moto erano Morini Corsaro 125, Aermacchi 250, Honda CB450, Ducati Scrambler 250 e 350. Ma le moto più desiderate erano le inglesi: BSA Spitfire, Triumph Bonneville, Norton Commando. Non immaginavamo che tempo pochi anni le giapponesi si sarebbero mangiate quelle mitiche britanniche

La rivolta era generazionale e arrivava da lontano. Dalla metà degli anni Sessanta si protestava negli Usa (Berkeley 1964, la prima rivolta in un campus) contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili; nel 1968 l’ondata arrivò in Europa fino all’apice del maggio francese. Nemici comuni erano l’autoritarismo, il sistema scolastico obsoleto e i pregiudizi dei prof; questo nelle scuole, mentre nelle fabbriche nasceva il rifiuto dell’organizzazione del lavoro. Gli obiettivi erano l’uguaglianza, l’anticorruzione nella politica, la partecipazione di tutti alla gestione delle fabbriche e delle università, basta con l’oppressione sociale e la discriminazione razziale. Valori importanti, per chi non aveva mai alzato la voce.

500, Maggiolini, Fiat Multipla (taxi), 600: il boom degli anni Sessanta
500, Maggiolini, Fiat Multipla (taxi), 600: il boom degli anni Sessanta

C’erano tanti ragazzi come me, senza una appartenenza politica ma pieni di una nuova energia, che volevano cambiare la società, e c’erano le ragazze che volevano il ruolo paritario della donna. Sarebbe cambiato molto il costume, quasi niente la politica, e all’inizio si mossero tutti i giovani, a sinistra come a destra; poi negli anni successivi le forme di opposizione si sarebbero trasformate per alcuni in qualcosa di molto più estremo, fino al terrorismo. Ma nel 68 a muoverci era soltanto il nuovo spirito del tempo, controculturale e anticonformista. E si respirava una magnifica aria di libertà.

Patente A del 1964: un giovanissimo Nico Cereghini, una delle pochissime foto che lo ritraggono senza barba
Patente A del 1964: un giovanissimo Nico Cereghini, una delle pochissime foto che lo ritraggono senza barba

Ma il mio baricentro era la moto.

Andavo pacificamente alle manifestazioni, leggevo seriosamente i testi politici, i nostri modelli erano Mao e Fidel Castro, figuratevi, non sapevamo niente. Dormivo con due poster sopra il letto, due meravigliosi soggetti inglesi: la modella Jane Shrimpton e la BSA Spitfire MK II. Perché la mia vera bussola restava Motociclismo, con le prove su strada e le cronache delle gare. Per seguire le corse non c’era mica la TV, l’unica gara trasmessa era il Gran Premio delle Nazioni di settembre a Monza con due o tre telecamere e la voce di Mario Poltronieri. Senza la Honda, fuori per concentrarsi sulla Formula 1, dominavano le MV a tre cilindri (qui l'articolo sul Motorsport). Il campionato mondiale si disputò su dieci prove, saltò proprio il GP di Francia a Clermont Ferrand: sei giorni prima della data prevista (28 maggio) gli organizzatori ricevettero un telegramma dal governo, “annullate la gara”. Perché proprio all’inizio di quel maggio ci furono i primi disordini alla Sorbona, una rivolta spontanea degli studenti contro la riforma dell’università, che da Parigi si allargò agli operai e poi a tutta la popolazione. «Contro il capitalismo, l’imperialismo e soprattutto contro il potere gollista dominante». Lì in Francia facevano anche più sul serio che da noi. Lo sciopero generale di metà maggio paralizzò il Paese per molte settimane.

Nel 68 il motociclismo non subì particolari contraccolpi, del resto l’ambiente della moto è sempre stato piuttosto lento e refrattario ai cambiamenti. Ma a cambiare era il mondo

Amavo la voce di Mina e di Patty Pravo, i pezzi dei Camaleonti e di Enzo Iannacci. I Beatles, fenomeno cosmico, cominciarono a disgregarsi, al festival di Sanremo trionfava Sergio Endrigo davanti a una delle mie preferite, Marisa Sannia. Al cinema uscivano “2001, odissea nello spazio” e “Il pianeta delle scimmie”, alla televisione ricordo il bellissimo sceneggiato “Odissea” con Irene Papas nel ruolo di Penelope. Ma la moto era sempre al centro dei miei pensieri e stava spuntando in me una gran voglia di correre in pista. Averne i mezzi…

Tu mi fai girar come fossi una bambola: Patty Pravo
Tu mi fai girar come fossi una bambola: Patty Pravo

Seguivo Ago senza amarlo, il mio mito era Mike Hailwood: quell’anno Agostini avrebbe centrato la prima doppietta 350/500 della sua carriera, vincendo e segnando il giro veloce dappertutto. Mio padre diceva: «Per forza, gh’è dumà lù». C’era solo lui, nelle classi maggiori. Il mio Hailwood - che era pagato dalla Honda per stare fermo - volle fare la sua ultima gara a Monza, il 15 settembre. Pioveva, ricordo ogni dettaglio come fosse oggi. La MV, spinta dagli organizzatori, aveva deciso di prestargli una 500 per le prove, poi forse Mike si rifiutò di fare il secondo a Mino e andò a cercare alla Benelli un muletto di Pasolini e il riminese accettò. Hailwood partì male, ma a Lesmo era già in testa superando nel curvone sia Agostini sia il Paso: sul bagnato una marcia in più, me lo avrebbe detto Renzo Pasolini in persona qualche anno dopo. Ma dopo un paio di giri Mike the bike cadde alla Parabolica quando era in scia ad Ago: in frenata gli partì la ruota davanti, scivolò via a tutta velocità e non si fermava più. Finì sotto la tribuna, si rialzò tutto coperto di fango e noi lo applaudimmo a lungo.

 

Una delle primissime prove di Nico per Motociclismo: alla montagnetta di San Siro con un Malaguti
Una delle primissime prove di Nico per Motociclismo: alla montagnetta di San Siro con un Malaguti

Nel 68 il motociclismo non subì particolari contraccolpi, del resto il mondo della moto è sempre stato piuttosto lento e refrattario ai cambiamenti. Ma in altri sport fu diverso, e i grandi eventi mondiali diventarono una cassa di risonanza ideale per manifestazioni clamorose. Come ai giochi olimpici di Città del Messico, quando sul podio dei 200 metri gli sprinter di colore alzarono il pugno chiuso nel guanto nero dei Black Power. Tommie Smith, medaglia d’oro in quella gara, dopo la premiazione dichiarò più o meno: «Se vinco dicono che ha vinto un americano, se perdo diranno che ha perso un negro. Noi siamo orgogliosi di essere neri e l’America nera oggi saprà che abbiamo fatto qualcosa di grande». Furono banditi dal comitato olimpico statunitense, ma la loro protesta fece molta impressione e in tanti capirono. Era il mondo che cambiava.

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