Non tutte le ciambelle riescono col buco. Ovvero, tecnica mancata

Ecco alcune soluzioni tecniche che nel settore motociclistico non si sono affermate per ragioni assai diverse nonostante funzionassero magari in campo auto
16 maggio 2021

Nella storia della moto di quando in quando sono state avanzate, anche da parte di grandi costruttori, proposte tecniche che si distaccavano dagli schemi usuali.

Si trattava di soluzioni innovative o anche solo alternative rispetto a quelle già consolidate e di impiego universale. Alcune di esse andavano sicuramente bene ma non sono comunque riuscite ad affermarsi. Questo perché non presentavano vantaggi o perché avevano un costo maggiore rispetto a quelle che avrebbero dovuto sostituire.
Altre volte comportavano, in fin dei conti, una maggiore complessità costruttiva, che ovviamente non era necessaria. Perché rendere le cose più difficili se si poteva ottenere lo stesso risultato in maniera più semplice e meno costosa?

Non si deve dimenticare poi il fattore estetico: difficile che qualcosa si riesca da affermare se non incontra i gusti del pubblico. C’è stata poi qualche soluzione che magari andava bene in altri settori (tipicamente si trattava di quello automobilistico) ma che non era adatta o comunque non forniva risultati analoghi in quello motociclistico.

Purtroppo la famosa Laverda 1000 con motore a sei cilindri non ha dato origine a una produzione di serie di modelli modulari con architettura a V, come si era ipotizzato in partenza. La moto ha comunque gareggiato, dimostrando di avere un grande potenziale. Pure in questo caso, poiché i condotti di aspirazione erano verticali, sono stati adottati carburatori automobilistici
Purtroppo la famosa Laverda 1000 con motore a sei cilindri non ha dato origine a una produzione di serie di modelli modulari con architettura a V, come si era ipotizzato in partenza. La moto ha comunque gareggiato, dimostrando di avere un grande potenziale. Pure in questo caso, poiché i condotti di aspirazione erano verticali, sono stati adottati carburatori automobilistici
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Oggi alla alimentazione dei motori provvedono raffinati sistemi di iniezione a gestione elettronica. Per lunghissimo tempo però la scena è stata dominata dai carburatori.
Quelli delle moto non erano uguali a quelli delle auto principalmente sotto due aspetti: erano a venturi variabile e non fisso e per regolare la dosatura per la maggior parte del campo di utilizzo impiegavano uno spillo conico mobile in quanto vincolato alla valvola del gas.

Di norma nei carburatori motociclistici di schema classico quest’ultima era a saracinesca e non a farfalla, come in quelli delle auto. Solo sui carburatori a depressione costante, nei quali la posizione della saracinesca è controllata pneumaticamente mediante impiego di una membrana in gomma sintetica, anche nel nostro settore si sono in seguito affermate le valvole del gas a farfalla.

Alcuni costruttori hanno impiegato carburatori automobilistici sulle loro moto, ma si è trattato di rari casi. In Inghilterra ha utilizzato gli SU la Triumph negli anni Cinquanta per la bicilindrica Thunderbird.
Del tipo a depressione costante, senza membrana ma con pistone scorrevole, erano uguali a quelli impiegati per molti anni su diverse vetture d’oltremanica. Poi anche per tale modello la Triumph è passata agli Amal, già da tempo adottati sul resto della sua ampia gamma.

Dal punto di vista commerciale la MV 600 è stata un autentico fiasco, dovuto al fatto che era brutta, aveva prestazioni modeste e costava uno sproposito. In quanto alla frenata, affidata a due dischi a comando meccanico, lasciamo stare…
Dal punto di vista commerciale la MV 600 è stata un autentico fiasco, dovuto al fatto che era brutta, aveva prestazioni modeste e costava uno sproposito. In quanto alla frenata, affidata a due dischi a comando meccanico, lasciamo stare…

Da noi ha impiegato carburatori auto la Ducati sulle Paso 750 e 900 di fine anni Ottanta principalmente perché non erano disponibili carburatori motociclistici a condotto verticale.

I risultati sono stati tutt’altro che entusiasmanti. Lo stesso hanno fatto la Guzzi per un suo bicilindrico rimasto allo stadio di prototipo e la Laverda per il suo celebre 1000 a sei cilindri. Con condotti orizzontali o solo poco inclinati non c’era storia, i carburatori motociclistici andavano meglio, erano più leggeri e semplici e probabilmente costavano meno. Avevano il condotto di aspirazione verticale o quasi le Guzzi monocilindriche da corsa degli anni Cinquanta e le Aermacchi da competizione del decennio successivo ma i carburatori motociclistici che le alimentavano erano del tipo con vaschetta separata (che veniva fissata al telaio e quindi poteva sempre essere disposta nella posizione ottimale).

Dopo la definitiva affermazione dei freni a disco in campo automobilistico, a un certo punto anche le case motociclistiche hanno iniziato ad interessarsi seriamente ad essi. Non si può dire però che siano partite subito con il piede giusto. Le prime realizzazioni messe a disposizione dell’industria motociclistica avevano infatti una pinza che veniva azionata meccanicamente (tramite cavo flessibile comandato dalla leva al manubrio) e non idraulicamente, come avveniva invece in campo auto.

Nei freni a disco quest’ultimo deve essere serrato dalle pastiglie con una forza assai considerevole e un sistema meccanico può aumentare quella esercitata dal pilota solo in misura piuttosto limitata.
Nel nostro settore questo sistema di comando va bene per i freni a tamburo, nei quali almeno una ganascia è sempre “autofrenante”, ma non per quelli a disco. In questi ultimi occorre un incremento della forza molto maggiore, che si può ottenere solo con i sistemi idraulici.

Alla fine del 1965 è stata presentata la MV 600 a quattro cilindri dotata anteriormente di due freni a disco Campagnolo azionati meccanicamente. La moto era brutta, aveva prestazioni tutt’altro che entusiasmanti e una frenata che lasciava molto a desiderare.

È stata costruita fino al 1970 in un totale di 310 esemplari, il che dice qualcosa…

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