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Dopo il giorno di sosta a San Augustin siamo ripartiti alla volta di Popayan, attraversando nuovamente le Ande Centrali e aggirando il vulcano Purace a quasi 4000 mt di altitudine. Anche questa volta il tempo non è stato clemente e una sottile ma fastidiosa pioggia ci ha accompagnato per tutta l'ascesa in quota, rendendo noioso l'altro bel tratto tirato in fuoristrada su strada bianca.
In cima all'altro piano abbiamo assaggiato un piatto tipico, l'aguapanela ovvero una specie di the dolcissimo fatto con lo zucchero di canna caramellato. Qui però te lo servono come fosse brodo, accompagnato da una fetta di formaggio e da una grossa frittella abbastanza “gnucca” da masticare. Io ero talmente infreddolito che me lo sono mangiato senza fiatare (doppia porzione di formaggio, pure) ma Sandro non mi è sembrato molto entusiasta.
Tutta la seconda parte della giornata l'abbiamo passata su una serie di curve e tornanti che a tratti ricordavano la Svizzera o l’Austria per via delle tante foreste di conifere e le piccole case in legno circondate dalle mucche da latte.
Quando finalmente siamo arrivati a Popayan, verso le tre del pomeriggio, il tempo si era rimesso in sesto e abbiamo potuto apprezzare i palazzi coloniali della piccola città colombiana, nota anche come “la ciudad blanca” per via della colorazione uniforme e accecante di tutto il centro storico.
Il giorno successivo sarebbe stato l'ultimo in sella, ma anche uno dei più memorabili. Abbiamo iniziato tagliando verso l'interno ed attraversando un numero indefinito di paesini che sembravano fermi a 30 anni fa. Il top lo abbiamo raggiunto a Silvia, un villaggio minuscolo dove ancora oggi molti Indios scendono dalle montagne per portare i loro prodotti al mercato locale. Purtroppo non abbiamo imbroccato il giorno giusto, ma nella piazza centrale e tra le stradine circostanti abbiamo potuto vedere molti uomini e donne vestiti con gli abiti tradizionali andini, tra cui il bel poncho blu e il cappello a bombetta. Gli uomini portano anche delle sciarpe a strisce la cui successione e numero di colori indica il loro livello sociale nella piramide gerarchica. Un codice colore come si usa nelle resistenze elettriche!
Prima di ripartire da Silvia ho sentito un rumore insolito nella parte posteriore sinistra della mia KLR e ho scoperto che il punto di saldatura della barra stabilizzatrice delle mie borse rigide aveva ceduto. Niente di grave ne sorprendente, specialmente dopo nove giorni di fuoristrada abbastanza duro a pieno carico. In men che non si dica un locale ci ha indicato l'officina di un fabbro che ha saldato l'attacco nel giro di cinque minuti e ci ha permesso di rimetterci in marcia. Non credo che esistano telaietti porta borse in alluminio, ma d'ora in poi mi assicurerò di usarne solo in ferro, altrimenti a quest’ora saremmo ancora bloccati nelle Ande... Voglio vedere dover avremmo trovato un artigiano che saldasse l'alluminio nel cuore dell’entroterra colombiano!
Dopo circa un'ora di strada asfaltata siamo stati costretti a fermarci per aspettare che passasse sopra di noi un brutto temporale: il problema principale non era infatti bagnarsi un po' quanto invece dover affrontare il lungo tratto fuoristrada su terra rossa che ci aspettava di lì a pochi km. Abituato a che razza di morsa di fango si trasforma l’argilla rossa della Georgia anche solo dopo un breve acquazzone, già mi stavo proiettando in testa film di gironi infernali tipo quelli “visti” nei primi giorni del nostro giro, quando abbiamo attraversato quella fangaia maledetta.
Con nostra totale sorpresa, però, le nuvole hanno girato improvvisamente e la nostra cavalcata è stata non solo asciutta, ma memorabile. Siamo dapprima saliti in quota tra palme e campi di canna da zucchero e banani. Poi, al momento di collinare, siamo stati accolti da una visione mozzafiato della vallata sottostante, alla cui base scorre placido il fiume Cauca. L'ultimo tratto di discesa, di circa 10km si è rivelato abbastanza impegnativo con le moto a pieno carico e le gomme da enduro turistico. Sassi, ghiaia profonda e canali scavati dall'acqua piovana ci hanno accompagnato fino alla fine, quando abbiamo raggiunto un piccolo paesello dove pranzare.
Ma qui, anziché trovare una maggioranza di etnia Indio, come spesso accade nelle zone remote, ci siamo trovati davanti soprattutto a gente di colore. La spiegazione si trova nel fatto che questa vallata molto umida, dove viene coltivata principalmente la canna da zucchero, sia di gradimento per le popolazioni di origine africana, che hanno deciso di rimanere in zona ed insediarsi lungo il fiume dopo la fine della schiavitù. Il tratto finale fino a Cali è stato il nostro addio/arrivederci, con una serie di belle curve prima di tuffarsi nel traffico orrendo del capoluogo colombiano.
Non un bellissimo finale per una simile smotazzata “in paradiso” ma la Colombia è anche questo: città caotiche e moderne, clacson a tutto spiano e smog degno della Milano Anni Ottanta.
Pietro Ambrosioni