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Cinquant’anni fa, alla fine dell’inverno del 1972, gli appassionati italiani di moto avevano tre piloti per cui infiammarsi. C’era Giacomo Agostini che solitario dominava 350 e 500 da anni con le MV, c’era Renzo Pasolini che finalmente disponeva di una Aermacchi 250/350 molto competitiva. E c’era Gilberto Parlotti, il pilota triestino (trevigiano di nascita) della Morbidelli 125.
Non era un personaggio da rotocalco, “Gibi”, era più vicino al Paso che ad Ago. Non era ricco, non era giovanissimo (31 anni fatti), correva da una vita: le gimkane, poi le salite, i circuiti friulani, veneti e jugoslavi, Morini 125, Tomos 50, quello che capitava. Era molto veloce, arrivò a tre titoli italiani; al mondiale era approdato stabilmente soltanto nel ’69, classe 50, prima Tomos poi Derbi 50, qualche podio.
Ci fu anche una sua straordinaria partecipazione ufficiale alla classe 250 quando la Benelli, per proteggere le spalle del suo pilota Carruthers che era leader del mondiale, lo volle sulla quattro cilindri per l’ultima gara del 1969 ad Abbazia. Su quel circuito stradale e pericoloso Parlotti era imbattibile: chiuse in scia al compagno, che vinse gara e titolo. Ma restano nei libri anche una vittoria a Skofja Loka con la Ducati 500 bicilindrica, un podio a Cesenatico sulla Morini 250, gare con Aermacchi e Yamaha.
Tutto per lui era cambiato quando Giancarlo Morbidelli, a metà della stagione 1970, lo aveva voluto sulla nuova, formidabile 125 bicilindrica curata da Jorg Moeller. Immediatamente Parlotti era diventato un protagonista internazionale, portando la moto alla prima vittoria di Brno e dominando i GP di Monza e Barcellona prima di essere fermato dalle rotture. La moto pesarese era potentissima ma fragile.
Nel ’71 il binomio era cresciuto, Gilberto e la Morbidelli 125 avevano vinto tutte le gare internazionali che precedevano il mondiale, poi avevano centrato due secondi posti al Salz e ad Hockenhein dietro a Nieto con la Derbi e Simmonds con la Kawasaki. La concorrenza era fortissima, Derbi, Suzuki, MZ, Maico, e alla fine della stagione, ancora bersagliata da rotture, era arrivata la vittoria nel GP delle Nazioni di Monza davanti a Nieto e a Sheene con la Suzuki.
Insomma, per tornare a noi, nel febbraio del 1972 in Morbidelli si lavorava duro per risolvere i problemi di affidabilità e gli appassionati aspettavano Gilberto Parlotti, sognando il titolo mondiale delle 125 che mancava dal ’61, con Carlo Ubbiali e la MV Agusta.
Le prime uscite furono trionfali, a Modena e Zeltweg si preparò il mondiale con altrettante vittorie. Nell’apertura del Nurburgring il dominio su Mortimer e la sua Yamaha (la nuova, raffreddata a liquido) fu così netto (15”) che l’inglese fece reclamo pretendendo il controllo della cilindrata. A Clermont Ferrand, secondo appuntamento, il distacco salì a 17 secondi; al Salz il triestino corse con il muletto perché la moto numero 1 era andata a fuoco e perse solo di un soffio la volata con Nieto; a Imola cadde alla Tosa, risalì in sella e fu terzo.
Parlotti era il leader in classifica della 125 e le prospettive erano ottime. Non sarebbe servito andare al Tourist Trophy, Giancarlo Morbidelli era decisamente contrario: troppo pericoloso, il TT era già disertato da molti big, anche da Sheene. Ma Gilberto ci voleva provare, girò a lungo con una Ducati 750 per memorizzare i 64 km del percorso, il suo amico Agostini gli fece da battistrada per giorni, alla fine stabilì il secondo tempo in prova.
Parlotti è morto all’isola, purtroppo. Era il 9 giugno 1972. Al secondo giro scivolò sull’asfalto bagnato alla Verandah, viaggiava a circa 160 orari e si schiantò contro un palo della luce o un muretto, le cronache sono confuse. Il figlio, Paolo, aveva otto anni e conobbe la verità guardando il TG del pomeriggio alla televisione. I fratelli di Gilberto, Mauro e Silvano, erano al lavoro nell’officina di famiglia quando arrivò la drammatica telefonata. Ago, sconvolto, non sarebbe più tornato al TT, che fu cancellato dal calendario del mondiale.
Voglio citare in conclusione ciò che diceva anni fa il suo amico fraterno Gino Rinaudo: Gilberto ha diviso tante esperienze motociclistiche con lui.
“Ci preparavamo - le sue parole - sulla strada del Vallone di Gorizia, dalla Rotonda del Boschetto fino al Cacciatore, sul Carso. Mica c’erano i circuiti per allenarci. Eravamo bravi, con le moto che ci venivano affidate all’ultimo momento, qualche mille lire di ingaggio e altrettante di premio. Ci piazzavamo sempre bene, talvolta primi, mai ultimi. Il papà di Gilberto guidava la Topolino per portarci alle gare in Veneto, in Emilia e in Jugoslavia, e sul paraurti posteriore avevamo fissato una specie di panca per le moto”.
“Si cominciava a correre in età adulta, non a 12 anni come adesso, e si imparava da soli. Noi, a Trieste, partivamo con l’handicap: le novità venivano provate subito, già in fabbrica, dai piloti lombardi o emiliani, così le prove e la qualifica erano i nostri allenamenti. Evidentemente eravamo bravi, se no mica ti affidavano moto semiufficiali. Gilberto era fortunato perché suo padre lo lasciava libero dal lavoro in officina, io ero impiegato alle Poste e già sposato a 25 anni, per prendermi la mia prima moto, un 98, ho firmato un pacco di cambiali”.
“Andavamo dove eravamo sicuri di racimolare premi e ingaggi. Ricordo che ho vinto nella 125 la Trento-Bondone e Gilberto è stato secondo nella 175 dietro a un certo Giacomo Agostini! Ebbene, Gilberto era tornato a Trieste sulla stessa moto con cui aveva gareggiato”.