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Periodo di tensioni negli States per Harley-Davidson. Nonostante il CEO Jochen Zeitz avesse tempo fa affermato che le moto vendute sul mercato interno sarebbero sempre state costruite negli Stati Uniti, recentemente è trapelata la notizia che la Casa starebbe spostando, perlomeno temporaneamente, la produzione dei modelli Revolution Max destinati agli US (e quindi Pan America, Sportster e Nightster) in Thailandia.
Com'è ben immaginabile la notizia ha generato un notevole dibattito. Secondo quanto riportato dal Milwaukee Sentinel questa decisione ha già scatenato l'ira dei sindacati sia nel Wisconsin sia in Pennsylvania che accusano l'azienda di essersi rimangiata la parola data: "Harley-Davidson ha fatto marcia indietro su quella promessa, pianificando di produrre queste moto all'estero e di inviarle negli Stati Uniti per i consumatori americani", ha affermato in una nota Brian Bryant, presidente dell'Associazione internazionale dei macchinisti e dei lavoratori aerospaziali. "L'annuncio di Harley-Davidson di trasferire il nostro lavoro e i nostri posti di lavoro in Thailandia è un calcio nei denti per i lavoratori americani e un tradimento dell'eredità dell'azienda come icona americana. Nel 2019, quasi 600 membri IAM di Harley-Davidson e Syncreon a Kansas City hanno perso il lavoro quando l'azienda ha chiuso la sua struttura, sostenendo che il suo stabilimento in Thailandia avrebbe servito solo i mercati asiatici ed europei", ha aggiunto.
Harley-Davidson ha confermato il cambiamento, ma non è d'accordo con il sindacato sulla questione occupazionale: "Ciò non avrà alcun impatto sull'occupazione presso le strutture statunitensi", si legge in una nota dell'azienda. Nei piani ci sarebbero infatti ulteriori investimenti nelle strutture americane. Il Dipartimento dell'Energia statunitense fornirà una sovvenzione di ottantanove milioni di dollari ai quali l'azienda stessa aggiungerà altri nove milioni di dollari per rafforzare le capacità produttive proprio negli Stati Uniti. Ma cosa verrà prodotto?
In Thailandia verrebbero spostate come detto le Revolution Max, mentre i più costosi Softail, Touring e Trike rimarranno dove sono: "Come parte della nostra strategia complessiva di ottimizzazione della produzione, Harley-Davidson trasferirà temporaneamente la produzione dei suoi modelli non core dotati di propulsore Revolution Max (Pan America, Sportster S, Nightster) al suo attuale stabilimento produttivo in Thailandia, per l'anno modello 2025", è la dichiarazione ufficiale dell'azienda.
Si tratta di uno stabilimento, quello tailandese, aperto a fine del 2018 per rispondere principalmente ai dazi del 31% imposti dall'Unione Europea sulle motociclette prodotte negli Stati Uniti. Dazi che a loro volta erano una risposta a quelli imposti dall'allora presidente Donald Trump sulle importazioni europee di acciaio e alluminio. All'epoca lo stesso Trump accusò Harley di usare i dazi come scusa per spostare la produzione all'estero. Forse qualcuno ricorderà un suo tweet nell'agosto di quell'anno (allora non era ancora X) in cui scriveva: "Molti proprietari di Harley-Davidson hanno intenzione di boicottare l'azienda se la produzione si sposta all'estero. Fantastico!".
Ciò che è successo da allora ad oggi è stato che Harley-Davidson ha faticato non poco a tenere sotto controllo i costi e come abbiamo già sottolineato in passato la strategia imposta dall'arrivo di Zeitz è stata quella di aumentare il profitto su ogni singola motocicletta, il che in pratica si traduce in prodotti sempre più premium. Per questo alcuni progetti come la naked Bronx sono stati accantonati. Non scordiamoci che la piattaforma Revolution Max è figlia della precedente amministrazione e del precedente piano industriale "More Roads" che mirava ad allargare la presenza del marchio su tutti i fronti e a non focalizzarsi su un unico segmento. Questo, invece, piacerebbe all'attuale CdA che, numericamente parlando, sembra aver ragione. Ad oggi H-D vende meno motociclette ma guadagna di più.
La delocalizzazione in Thailandia della linea di prodotto che sta alla base della gamma Harley-Davidson ci porta ad alcune riflessioni. La piattaforma Revolution Max probabilmente deve generare più margine per l'azienda ma sicuramente non è considerata "core" ovvero centrale dall'attuale CDA. Si tratta della linea con i prezzi più bassi in listino. A questa considerazione si aggiunge l'interpretazione che dovremmo dare di quel "temporaneamente" inserito nella nota ufficiale. Non può essere lì a caso e può essere riferito a due cose: al fatto di produrre in Thailandia le Revolution Max o al fatto stesso di produrre le Revolution Max la cui accoglienza da parte dei fan non è stata semplice e che, come detto poc'anzi, non sono considerate centrali. Dobbiamo dedurre che se non diventano più profittevoli grazie alla produzione tailandese siano dunque destinate a sparire in tempi relativamente brevi? Sarebbe ovviamente un peccato. A meno che non sia davvero una temporaneità dovuta all'ammordernamento delle linee di produzione americane.
Infine la conseguenza più importante sottolineata dai sindacati americani: spostare in Thailandia una produzione significa esporre ad un possibile danno e rischio anche i fornitori e i lavoratori dell'indotto locale. "Impiegheremo tutte le risorse a nostra disposizione per combattere questa mossa scandalosa. Harley-Davidson deve tornare al tavolo da disegno e sviluppare una soluzione che mantenga la produzione delle moto Sport Series e Pan America dove appartengono, negli Stati Uniti", ha concluso il presidente Bryant.
Non bastasse questo "Thai gate" con le minacce bellicose dei sindacati, sul tavolo Harley-Davidson c'è in questo momento un'altra bella gatta da pelare. Un gruppo di concessionari ha apertamente accusato l'azienda di... fregarli! Ovvero di accumulare profitti a loro danno costringendoli ad acquisti forzati di scorte e aggiornamenti continui degli showroom. The Harley-Davidson Dealer Council che riunisce oltre duecento dealer all'interno della National Powersports Dealer Association ha inviato una lettera al Wall Street Journal e al Chief Commercial Officier di Harley contenente una serie di lamentele tra cui la spedizione di un inventario eccessivo ai concessionari in quanto le vendite ristagnano o calano, oltre a comunicare ai concessionari che devono apportare costosi aggiornamenti ai loro showroom per rimanere concessionari. In buona sostanza accusano H-D di gravarli di scorte indesiderate, costosi aggiornamenti delle concessionarie e sostanzialmente di riempirsi le proprie tasche sulle spalle delle concessionarie.
Non è la prima volta che un'azienda del nostro settore viene più o meno apertamente accusata di attuare una politica vessatoria ma in questo caso le accuse sono particolarmente gravi e arrivano in un momento in cui i dati finanziari della Motor Company sono finalmente tornati positivi e sottolineano come la strategia attuale stia letteralmente pagando. I ricavi quest'anno sarebbero aumentati del 13% e la società avrebbe riacquistato azioni per un valore di un miliardo di dollari.
Secondo quanto riportato dal Journal, i concessionari affermerebbero che anche questo riacquisto azionario sia stato "alimentato da ciò che è stato preso alle concessionarie" in quelle spinte di inventario e richieste di abbellimento e, quindi, non sia dovuto a reali vendite di motociclette. In sostanza, Harley-Davidson trasferirebbe così il rischio alle concessionarie e prenderebbe subito ricavi che la fanno sembrare in una situazione sana che però sana non è. Si tratta di accuse molto gravi che, peraltro, arrivano dopo un campanello d'allarme che è già suonato all'estero. Poche settimane fa un'imputazione analoga è stata infatti mossa dalla Fair Trade Commission giapponese nei confronti di Harley Japan. Secondo alcune fonti "HD Japan ha iniziato a stabilire quote di vendita irrealisticamente elevate intorno al 2020-2021. Le concessionarie sotto contratto sono state quindi minacciate di non rinnovare i loro contratti se non avessero rispettato queste elevate quote di vendita. Ciò, a sua volta, non ha lasciato ai concessionari altra scelta che acquistare le moto da soli per rispettare le quote. In alcuni casi, affermano le accuse, ciò includeva modelli che non volevano o non potevano giustificare l'acquisto e la vendita nelle loro aree". E se oltre a quella giapponese vedessimo prossimamente intervenire anche la Federal Fair Trade Commission americana? Quello che appare come un periodo di rilancio potrebbe invece rivelarsi come un terreno decisamente paludoso: Zeitz e sodali riusciranno a traghettare il glorioso marchio oltre queste cattive acque?