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Ormai con i motori aspirati siamo vicini al limite, per quanto riguarda la potenza specifica ottenibile.
Per migliorare la situazione, ammesso che ce ne sia bisogno, si sta cominciando a parlare con una certa frequenza della sovralimentazione, che forse potrebbe arrivare ad affermarsi in misura rilevante anche in campo moto, dopo averlo fatto sulle auto.
L’unica altra soluzione alla quale si potrebbe fare ricorso è quella che prevede l’impiego di un maggior numero di cilindri. Per le moto però questa strada appare difficilmente percorribile, soprattutto per ragioni di ingombro.
Per le auto contano in misura preponderante i fattori economici e poi la situazione è ben diversa nei due settori. Le modalità di impiego tipiche sono differenti, come pure lo spazio a disposizione dei vari organi meccanici. Tra l’altro nel caso delle moto non si deve dimenticare che esiste un forte legame tra i modelli da competizione e quelli sportivi destinati a normale impiego stradale.
La sovralimentazione consente di aumentare la potenza specifica dei motori senza dover incrementare il regime di rotazione. In passato, quando di compressori non se ne parlava neanche o le norme sportive non ne consentivano l’impiego (o non lo rendevano conveniente), per aumentare le prestazioni dei motori si ricorreva spesso a un maggior frazionamento.
Se si aumenta la velocità di rotazione di un motore le prestazioni che esso fornisce crescono ma parallelamente aumentano anche le sollecitazioni meccaniche. Fermi restando il rapporto corsa/alesaggio e la cilindrata totale, aumentando il numero dei cilindri si possono raggiungere regimi di rotazione più alti senza causare un aumento delle sollecitazioni meccaniche. Inoltre cresce la superficie totale dei pistoni, parametro motoristico assai importante.
La formula è chiara: la potenza è uguale al prodotto della pressione media effettiva (PME) per la cilindrata (volume) per il regime di rotazione (frequenza, ossia t-1).
A sua volta, una frequenza per un volume è uguale a una velocità per una superficie. Dunque il prodotto del regime di rotazione per la cilindrata è uguale al prodotto della velocità media del pistone (doppio della corsa per il regime di rotazione) per la superficie totale dei pistoni. Ciò significa che, ferme restando la PME e la velocità media del pistone (ovvero le sollecitazioni meccaniche), la potenza del motore dipende solo da tale superficie. Che, mantenendo invariato il rapporto corsa/alesaggio (C/D), aumenta al crescere del frazionamento, ossia del numero dei cilindri.
Se prendiamo ad esempio un monocilindrico di 500 cm3 e un quadricilindrico della stessa cilindrata, entrambi con misure caratteristiche perfettamente “quadre” (ossia, con l’alesaggio eguale alla corsa), potremo agevolmente constatare ciò. Nel caso specifico, la superficie in questione nel motore quadricilindrico è pari a quella del monocilindrico moltiplicata per 1,587, ovvero per la radice cubica di quattro.
Se facciamo il confronto tra il monocilindrico e un bicilindrico di eguale cilindrata avremo che la superficie del primo va moltiplicata per 1,26 per ottenere quella del secondo motore. E 1,26 è la radice cubica di 2. Si può procedere in maniera analoga anche per altri frazionamenti (basta avere una calcolatrice per verificare questo).
È così possibile constatare agevolmente che la superficie totale dei pistoni aumenta con la radice cubica del numero dei cilindri. E siccome la potenza è direttamente proporzionale alla superficie dei pistoni, è così spiegato per quale ragione e in quale misura i motori più frazionati possono erogare potenze maggiori rispetto a quelli di eguale cilindrata che di cilindri ne hanno meno.
Insomma, se da un mono si passa a un bicilindrico la potenza aumenta (teoricamente) del 26% e passando a un quadricilindrico cresce del 58,7%. Naturalmente, tali incrementi prestazionali sono ottenuti a regimi di rotazione diversi; come premesso infatti la velocità media del pistone non varia. A pari rapporto C/D, aumentando il frazionamento la corsa diminuisce e quindi per raggiungere la stessa velocità media del pistone il motore gira più forte.
Poiché con un frazionamento più spinto si possono ottenere prestazioni più elevate, in passato diversi costruttori hanno realizzato motori da competizione con un numero di cilindri molto elevato.
Negli anni Trenta le formidabili Auto Union da Gran Premio progettate da Ferdinand Porsche erano azionate da splendidi V16 montati posteriormente. Un eguale frazionamento è stato adottato dalla BRM per una 1500 sovralimentata di Formula Uno, sporadicamente vista in pista (con pessimi risultati) nei primi anni Cinquanta. Un altro 16 cilindri è stato realizzato dalla Coventry Climax nel 1964 ma non è uscito dallo stadio di prototipo.
Ha invece corso il BRM 3000 con architettura ad H del 1966-67 che è poi stato accantonato perché il V12 della stessa casa, più leggero, più compatto e meccanicamente meno complesso, andava meglio.
D’altro canto proprio le F1 di 3 litri hanno dimostrato come una monoposto dotata di un V8 dall’ingombro e dal peso minori possa assai spesso risultare vincente nei confronti di una con un V12, anche se quest’ultimo ha più cavalli.
Nel nostro settore parlare di motori molto frazionati equivale a parlare della Guzzi a 8 cilindri da Gran Premio, una delle più importanti (e audaci) realizzazioni nella storia della tecnica motociclistica
Nel nostro settore parlare di motori molto frazionati equivale a parlare della Guzzi a 8 cilindri da Gran Premio, una delle più importanti (e audaci) realizzazioni nella storia della tecnica motociclistica.
L’obiettivo era quello di ottenere una potenza superiore a quella delle 500 quadricilindriche Gilera e MV. Per raggiungerlo il geniale progettista Giulio Cesare Carcano decise di realizzare un otto cilindri a V di 90°.
Lo schema avrebbe assicurato una eccellente equilibratura e una grande compattezza ma avrebbe reso necessario il ricorso al raffreddamento ad acqua. Vennero adottate canne cilindro umide, che venivano avvitate nelle teste, ciascuna delle quali incorporava anche la parte superiore della relativa bancata di cilindri. Il motore, che aveva un alesaggio di 44 mm e una corsa di 41 mm, è arrivato ad erogare una potenza di oltre 75 cavalli a poco più di 12.000 giri/min prima che lo sviluppo venisse interrotto, al termine del 1957, a causa del ritiro della casa dalla attività agonistica.
Le teste erano fuse in lega Y (termoresistente, al rame) e le due valvole di ogni cilindro formavano tra loro un angolo di 58°. I pistoni erano a mantello intero con cielo notevolmente bombato e la distribuzione bialbero veniva comandata da ingranaggi collocati sul lato destro del motore.
Nella seconda metà degli anni Sessanta anche la Benelli ha pensato a un V8 da competizione, che in questo caso sarebbe stato di 250 cm3 e avrebbe avuto il raffreddamento ad aria. Sono state realizzate alcune fusioni del motore ma poi il progetto è stato abbandonato a causa dei limiti imposti dalla FIM in materia di frazionamento.
Non era invece destinata alle competizioni ma al gran turismo la moto a otto cilindri, sempre a V di 90°, costruita nei primi anni Novanta da Giancarlo Morbidelli in pochi esemplari soltanto.
Aveva una cilindrata di 850 cm3, ottenuta con un alesaggio di 55 mm e una corsa di 44,6 mm, ed erogava un centinaio di cavalli a un regime di 11.000 giri/min. L’obiettivo in questo caso era quello di ottenere una straordinaria fluidità di erogazione, abbinata a una potenza assai considerevole e a un sound assolutamente unico.
L’estetica però era quanto meno discutibile e il costo esorbitante…