Quando l’albero (a camme) è uno solo

Se l’obiettivo non sono le massime prestazioni, la soluzione monoalbero merita sempre grande attenzione
21 aprile 2020

Rispetto a quella con un singolo albero a camme in testa, una distribuzione bialbero consente di avere per ogni valvola una minore massa mobile unitamente a una maggiore rigidezza degli organi che trasmettono il moto alle valvole.

Con lo schema monoalbero (qui il primo articolo su questo argomento) la testa è però nettamente più compatta e quindi anche più leggera, e in certi casi ciò può avere una importanza considerevole, come talvolta accade in campo crossistico. Inoltre il numero delle lavorazioni e dei componenti è minore e il sistema di comando è più semplice, con ovvi vantaggi in termini di contenimento dei costi di fabbricazione.

Negli anni Trenta i costruttori stavano gradualmente abbandonando le distribuzioni a valvole laterali, che venivano via via riservate a modelli utilitari o destinati a impiego gravoso, tipo quello con abbinamento a un carrozzino (i sidecar erano popolari all’epoca).

Negli anni della ricostruzione postbellica la MM ha costruito ottimi modelli di serie con albero a camme in testa azionato da una catena collocata sul lato destro. Questa è una 250 del 1950
Negli anni della ricostruzione postbellica la MM ha costruito ottimi modelli di serie con albero a camme in testa azionato da una catena collocata sul lato destro. Questa è una 250 del 1950
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Contemporaneamente diventavano sempre più numerosi i motori ad aste e bilancieri. E alcune case già offrivano alla loro clientela più sportiva qualche modello con un albero a camme in testa, soluzione tipica delle moto da competizione.
È questo ad esempio il caso della Bianchi (250, dal 1937), della Taurus (G 27 di 500 cm3, dal 1934) e della CM (250 Sport, dal 1935). In quanto alla Benelli, sia la 175 (dal 1927) che la 500 e la 250 (rispettivamente dal 1934 e dal 1936) avevano la distribuzione monoalbero impreziosita dal comando a cascata di ingranaggi, autentica raffinatezza meccanica, e questo anche nelle versioni da turismo! In Inghilterra spiccavano la Norton International di 500 cm3 (dal 1932) e la Velocette modello K di 350 cm3 (dal 1925).

In Italia il motociclismo ha goduto di una straordinaria popolarità per quasi tutti gli anni Cinquanta. In tale periodo per diverso tempo l’autentica classe regina per quanto riguarda i modelli stradali è stata la 175

In Italia il motociclismo ha goduto di una straordinaria popolarità per quasi tutti gli anni Cinquanta. In tale periodo per diverso tempo l’autentica classe regina per quanto riguarda i modelli stradali è stata la 175.
Alcuni costruttori sono arrivati prima e altri dopo ma praticamente tutti avevano in listino una o più moto di questa cilindrata. Tra di esse, diverse avevano la distribuzione monoalbero, giustamente ritenuta più “pregiata” rispetto a quella ad aste e bilancieri e quindi considerata un plus importante.

Il Salone di Milano che ha visto il vero e proprio lancio di questa classe è stato quello del 1952. In aggiunta alle monocilindriche Morini (aste e bilancieri), Parilla (camma rialzata), c’erano la MV e la Mengoli monoalbero. Pure la bicilindrica Comet aveva la distribuzione di quest’ultimo tipo.

Nel 1954 le novità in questa classe di cilindrata sono state numerose e importanti. Spiccavano la Mondial a cilindro inclinato e la Bianchi, entrambe con albero a camme in testa comandato mediante catena. La Demm, famosa per i suoi ingranaggi, aveva invece optato per un comando ad alberello e coppie coniche. Sempre per quanto riguarda le 175 monoalbero, il 1956 ha visto l’entrata in scena della Ducati 175, della Guzzi Lodola. Negli anni Cinquanta vanno ricordate anche la MM, fedele a questo tipo di distribuzione per i suoi modelli più importanti, di 250 e 350 cm3, e la Berneg, prodotta in numeri ridotti ma di notevole interesse.

In Germania in questo stesso periodo hanno fatto la loro comparsa due realizzazioni di grande validità tecnica, la NSU 250 Max e la Horex bicilindrica Imperator di 400 cm3, entrate in produzione rispettivamente nel 1952 e nel 1954.

Ammiraglia della gamma Demm è stata per diverso tempo una 175 nella quale l’albero a camme in testa era azionato da un alberello (non parallelo ma leggermente inclinato rispetto al cilindro!) e due coppie di ingranaggi conici. Questo impeccabile esemplare è stato fotografato nel museo Poggi di Villanova di Castenaso
Ammiraglia della gamma Demm è stata per diverso tempo una 175 nella quale l’albero a camme in testa era azionato da un alberello (non parallelo ma leggermente inclinato rispetto al cilindro!) e due coppie di ingranaggi conici. Questo impeccabile esemplare è stato fotografato nel museo Poggi di Villanova di Castenaso

Poi è venuto il collasso del mercato motociclistico. Da noi si è verificato tra il 1958 e il 1960 e ha visto il crollo delle vendite e l’entrata in una crisi profonda di quasi tutti i costruttori, alcuni dei quali sono stati costretti ben presto a chiudere i battenti. A causarlo sono state la migliorata situazione economica e la disponibilità di auto utilitarie dal costo contenuto e agevolmente acquistabili a rate.
C’è anche da dire che, a differenza della maggior parte delle moto dell’epoca, queste vetture (fondamentalmente si trattava delle Fiat 600 e 500) non davano mai problemi, duravano tanto e avevano esigenze di manutenzione molto ridotte.

Tra le moto sopravvissute e le poche nuove, nella prima metà degli anni Sessanta solo le monocilindriche Ducati avevano la distribuzione monoalbero. Tutte le altre erano ad aste e bilancieri.

Della situazione diventata così negativa, con conseguente scomparsa di tante moto in precedenza così importanti, hanno dunque risentito maggiormente quelle con albero a camme in testa. La ragione è semplice: avevano un costo di fabbricazione più elevato e in fin dei conti all’epoca non è che fornissero prestazioni migliori rispetto ai modelli ad aste e bilancieri (stiamo ovviamente parlando di normali moto stradali).

Occorre anche dire che il comando dell’albero a camme in testa spesso poneva problemi. Se era a catena, occorreva impiegare un tenditore efficiente, ma non tutti ne utilizzavano uno. Basta osservare le foto di molti motori dell’epoca per rendersene conto. C’è stato chi per ridurre o comunque ritardare l’allungamento della catena che inevitabilmente si verificava con il passare dei chilometri è passato addirittura al tipo con doppia fila di rulli.

Esemplare a questo proposito è stato il caso della Guzzi che nel giro di breve tempo ha modificato la Lodola 175 aumentandone la cilindrata a 235 cm3 e trasformando la distribuzione da monoalbero ad aste e bilancieri.

Con la 175 del 1956 è iniziata la grande storia delle Ducati monoalbero di serie. L’anno prima l’ing. Taglioni aveva realizzato la leggendaria Marianna, che però aveva le valvole scoperte, non era destinata al normale impiego stradale ed è stata costruita in un numero ridotto di esemplari
Con la 175 del 1956 è iniziata la grande storia delle Ducati monoalbero di serie. L’anno prima l’ing. Taglioni aveva realizzato la leggendaria Marianna, che però aveva le valvole scoperte, non era destinata al normale impiego stradale ed è stata costruita in un numero ridotto di esemplari

Il comando con alberello e due coppie di ingranaggi conici, impiegato di serie solo dalla Ducati e dalla Demm, era molto costoso, sia per il numero di componenti in gioco che per quello delle lavorazioni; inoltre l’assemblaggio richiedeva tempo e abilità, se si voleva contenere la rumorosità di funzionamento.

C’è pure da osservare che non di rado si verificavano problemi di usura a livello di camme e di pattini dei bilancieri. La lubrificazione spesso non era in grado di contenere in misura adeguata l’usura, che poteva risultare evidente già dopo percorrenze tutt’altro che elevate. Questo non tanto per la ridotta quantità di olio (peraltro all’epoca dotato di caratteristiche non esaltanti) che perveniva alle zone di contatto tra camma e bilanciere, quanto per il fatto che dopo l’avviamento esso impiegava un tempo considerevole per arrivare alla testa.

 

Di norma il pattino dei bilancieri veniva dotato di un riporto di cromo duro applicato galvanicamente ma vanno segnalate due soluzioni alternative di notevole interesse, in grado di fornire eccellenti risultati. Una era impiegata dalla bolognese MM e prevedeva placchette riportate in metallo duro nelle quali veniva ricavato il pattino. L’altra, adottata dalla Guzzi e largamente utilizzata anche oggi, prevedeva l’utilizzazione di un rullo al posto del pattino; l’attrito radente veniva sostituito da quello volvente ma si aveva un aumento del costo e del peso.

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