Restaurando, ottava puntata: Laverda 750 SF

Restaurando, ottava puntata: Laverda 750 SF
La rubrica di Moto.it in collaborazione con lo specialista Soiatti Moto Classiche di Novara.Il mito italiano anni '70
19 maggio 2017

Anche se messa in condizione critiche come l'esemplare di cui vi parleremo oggi, quando si ha davanti un capolavoro come la Laverda 750 SF, è difficile trattenersi dal cercare di rimetterla nella migliore condizione possibile. Questo deve avere pensato chi ha recuperato quest'imponente creatura arancione, consegnandola nelle mani esperte di Daniele Soiatti.

Prima di parlare del restauro, come di consueto, faremo qualche accenno sulla storia di questo modello.

Massimo Laverda -figlio del fondatore dell'omonima azienda- durante un viaggio negli Stati Uniti nel 1965, si convinse del fatto che per l'azienda, in attività dal 1949, fosse giunto il momento di passare alla produzione di moto più performanti e dalla cilindrata maggiore.

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Una volta rientrato in Italia e dopo aver ricevuto la benedizione del padre, cominciò a progettare assieme al tecnico Luciano Zen, una moto a due cilindri verticali con un una cilindrata di 650 cm³. Il risultato fu un prototipo presentato al Earl's Court Show di Londra nel 1966. Le linee ricordavano fortemente quelle della Honda CB77 "Superhawk”, in versione palestrata. La storia vuole che, non avendo i fondi necessari per disegnare una moto esteticamente innovativa, Massimo si sia lasciato ispirare dalla piccola Honda. Lo scopo era anche quello di legare il marchio Laverda alla sensazione di affidabilità che la casa nipponica trasmetteva.

Nonostante il modello in vendita fosse molto vicino al prototipo, ci vollero ben due anni prima che il prototipo fosse commercializzato. Di unità con motore 650 cm³ ne furono vendute poche visto ben presto la cilindrata fu aumentata a 744 cm³. Questo modello fu poi affiancato nel 1969 da una versione più sportiva: la 750 S. Negli Stati Uniti, commercializzata sotto al marchio American Eagle, arrivò solo la versione con cilindrata maggiore.

Nel 1970, visto il buon successo di questa moto, fu introdotta la versione SF, Super Freni. Come si evince dalla sigla, la modifica più rilevante fu all'impianto frenante, ora dotato di doppi freni a tamburo doppia camma da 230 mm di produzione Laverda, dotati di una ventola per migliorarne il raffreddamento e montati su cerchi a raggi Borrani da 18 pollici.

La 750 SF aveva tutte le carte in regola per cogliere il testimone del sucesso del modello precedente. Il prezzo di 1.065.000 lire giocava a suo favore  -inferiore a quello all'Honda CB750 Four, che costava oltre 200.000 lire in più, e a quello della Moto Guzzi V7 Sport che sfiorava il milione e mezzo- e anche le ottime performance del motore facevano gola ai centauri, ingolositi dalla potenza di 60 CV a 6.600 giri e dalla velocità massima di 190 km/h.

Furono 1.096 gli esemplari venduti nel 1970, che quasi duplicarono nel 1971, passando a 191. Nel 1973, quando fu introdotta la versione SF1, il numero delle unità vendute crebbe a 3.082, diventando la maximoto più venduta d'Italia.

L'esemplare di cui vi parleremo oggi è un esemplare degli inizi del 1972, come riportato a libretto. Non più dotata di strumentazione britannica Smiths, ma dotata di strumenti giapponesi Nippon-Denso, gli stessi dell'Honda CB750 Four. Il serbatoio, paragonato alla versione precedente, invece, oltre a cambiare di forma, perde i para ginocchia in gomma.

Quando è arrivata da Soiatti, tre erano le maggiori problematiche della moto: l'impianto elettrico pasticciato e non funzionante, la parte posteriore del telaio reggisella crepata e il motore bloccato. In più era affetta dai soliti acciacchi tra cui l'ossidazione sui cerchi ed il collettore destro crepato.

Prima di smontare completamente la moto, si è iniziato a fare un censimento dei pezzi mancanti o da sostituire perché rovinati o, più semplicemente, inutilizzabili.

Su internet sono ancora disponibili svariati ricambi, ma non tutti. Sono stati ordinati dei nuovi collettori, una nuova sella, replica fedele dell'originale con cupolino in materiale plastico e comparto chiudibile con serratura e, a onor del vero, poco altro, visto che, tutto sommato, la moto era abbastanza completa.

Una volta tolte tutte le sovrastrutture ed arrivati al nudo telaio, Soiatti ha dovuto rimediare alla crepa nel telaio dovuta alle forti vibrazioni generate dal motore. La parte posteriore del telaio è stata tagliata simmetricamente e, all'interno dei tubi tel telaio è stata inserita un'anima in acciaio che, a sua volta, è stata innestata nelle rispettive estremità della parte staccata, in modo tale da fornire un appoggio sicuro alla sella. Una volta completato il lavoro sul telaio, lo stesso è stato sabbiato e riverniciato nel caratteristico nero lucido.

Il motore è stato aperto, i cilindri sono stati rettificati e sono stati rimpiazzati i pistoni, così come parecchi altri elementi interni, in quanto usurati. I doppi carburatori, i 30 mm Dell'orto VHB, sono stati puliti agli ultrasuoni e revisionati. Il motore, infine, è stato sabbiato, mentre i carter laterali sono stati lucidati come in origine.

Successivamente, oltre ad aver dovuto ricostruire da zero l'impianto elettrico, devastato da mani poco esperte, Soiatti ha revisionato la forcella -Ceriani da 35 mm- e gli ammortizzatori posteriori. I foderi della forcella sono stati verniciati in nero lucido e gli steli cromati. Trattamento analogo per gli ammortizzatori posteriori.

Per quanto riguarda la strumentazione, è stata mantenuta quella originale, che è stata revisionata e rivista solo nell'estetica.

Gli imponenti freni a tamburo prodotti dalla stessa Laverda sono stati revisionati, i raggi cromati e i cerchi Borrani in alluminio sono stati lucidati.

Un lavoro che Soiatti ha tenuto a precisare, è quello delle pedane del passeggero. Una volta trovati e acquistati i gommini originali, pressoché introvabili, si è trovato difronte ad un problema non indifferente: il fungo a fine pedana era troppo largo perché entrasse il gommino. Non essendoci modo per farlo entrare, se non con il concreto rischio di rovinare la gomma, la soluzione che ha adottato è stata davvero ingegnosa. Ha tagliato a metà il tubo di ferro delle pedane ed ha infilato delle boccole filettate. In questo modo è riuscito ad inserire l'inserto in gomma, avvitando poi la parte finale della pedana.

Per finire i lavori, sono stati riverniciati i fianchetti ed il serbatoio nella classica colorazione arancione .

Per ottenere un simile risultato, questo restauro ha richiesto uno sforzo non trascurabile. Nella realizzazione di questo progetto, infatti, sono state impiegate circa 120 ore di manodopera, alle quali vanno aggiunti i ricambi, cromature, zincature e verniciatura, con costi si aggirano attorno ai 3.500 euro.

Avete restaurato anche voi una moto d'epoca? Mandateci le foto e i dettagli del restauro. le documentazioni più complete verrano pubblicate su Moto.it.

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