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Alla moda, poco costosa e cattiva, queste le chiavi che hanno permesso alla Kawasaki 400 Mach II di affermarsi all’interno del mercato europeo. Diciamo europeo in quanto il mercato italiano, pochi anni dopo la presentazione di questo modello - parliamo del 1974 - andò incontro ad un periodo di austerità economica.
A cavallo tra la fine degli anni ‘60 e, sopratutto, l’inizio degli anni ‘70, il mercato delle moto era in fermento, grazie all’emergere in Europa delle case giapponesi che cominciavano a dare del filo da torcere a quelle del Vecchio Continente. Nascevano così moto di diversi segmenti e di diverse cilindrate, per poter venire incontro ai gusti e alle disponibilità di una vasta clientela.
Proprio in questo contesto storico nascevano moto come la quella protagonista del servizio di oggi, la Kawasaki 400 Mach II, una 400 a 2 tempi, capace di far divertire anche il pilata più smaliziato, senza però avere dei costi di acquisto e di manutenzione esagerati.
Se nel 1974 la 400 Mach II aveva un costo di 980.000 lire, per portarsi a casa la sorella maggiore, Mach III 500, si doveva sborsare 1.198.000 lire, mentre per la Suzuki GT 750 il prezzo saliva a 1.581.200 lire.
Molto simile alla H1B 500, la Mach II fu presentata a a Parigi ad ottobre 1973. Ma qual era il senso di una moto così simile ad una di cilindrata di poco superiore? Come spesso si è visto su altri marchi nipponici, la differenza di cilindrata era dettata dal fatto che, per moto di cilindrata superiore a 400 cc, ottenere la patente di guida nel Paese del Sol Levante era particolarmente complicato. Da qui la scelta di creare nuovi modelli.
Se non fosse per le teste un po’ più piccole e per l’adesivo “400 Mach II” sui fianchetti, distinguerla dalla 500 sarebbe pressoché impossibile. Sulla Mach II, infatti, tutte le sovrastrutture, comprese serbatoio, sella e codone erano identiche a della Mach Mach 3 500, così come la forcella, comandi al manubrio e strumentazione. Una specie di fotocopia ridotta nella cilindrata.
Le finiture, come per le “grandi”, erano particolarmente curate. Vernice metallizzata, scarico a tre uscite asimmetrico, linee cattive e alcuni accorgimenti antivibrazione molto intelligenti. Il motore è il tre cilindri in lega leggera che, grazie ai 42 CV di potenza massima, era in grado di far viaggiare la moto a velocità superiori ai 160 Km/h.
A frenare la moto, vista la ragguardevole velocità di punta, ci pensano un disco anteriore da 280 mm e al posteriore, lo stesso freno a tamburo della 500.
Sono state in tutto sette le versioni in cui è stata prodotta la Mach II 400, a partire dalla S3 del 1974, seguita successivamente dalle versioni S3A, KHA3, KHA4, KHA5, KHA6, fino arrivare alla KHA7 prodotta nel 1980 e mai arrivata in Europa.
La moto di questa puntata di restaurando è una prima serie del 1974 ed è stata prelevata da Soiatti da un capannone in disuso, all’interno della proprietà di un allevamento nella provincia di Novara. Le condizioni sia estetiche che meccaniche erano gravemente compromessa da anni di incuria e di esposizione all’umidità dei campi ma, quantomeno, era completa.
Il primo passo è stato quello di spogliare completamente la Mach II, arrivando al nudo telaio, iniziano così a capire dove intervenire.
L’elemento maggiormente compromesso era sicuramente il propulsore che, oltre ad avere evidenti perdite di olio, presentava pesanti incrostazioni sui pistoni, così si è proceduto al totale smontaggio, andando a sostituire gli elementi maggiormente danneggiati, tra cui gli ingranaggi del cambio e successivamente rettificando i tre cilindri, sostituendo i pistoni con ricambi nuovi di misura adatta. Infine è stata sostituita la pompa del miscelatore, i carter motore sono stati lucidati, come in origine e la parte superiore sabbiata.
Altro problema che affliggeva la Kawasaki, era l’impressionante quantità di ruggine che aveva intaccato ogni particolare, andando a richiedere così un lavoro profondo sulle cromature, a partire dai bellissimi scarichi originali, passando per i supporti faro, raggi ruote, supporti frecce, manubrio e molle degli ammortizzatori posteriori. Altro elemento contagiato dalla ruggine, poi, era il telaio che, assieme al cavalletto centrale e laterale e a tanti altri dettagli, è stato prima sabbiato e poi riverniciato nel tipico nero lucido.
Anche l’impianto elettrico non era arrivato indenne dagli anni trascorsi nel capannone e, sopratutto, mani poco esperte dovevano aver già tentanto di ripararlo in maniera forse un po’ troppo amatoriale. Per questa ragione, in modo tale da trasformare un “rottame” in un mezzo utilizzabile tutti i giorni, Soiatti lo ha ricostruito da zero.
La forcella è stata revisionata da cima fondo, senza dimenticare la lucidatura dei foderi e la cromatura degli steli; stesso lavoro di revisione è stato fatto al posteriore. La strumentazione è stata riparata e rivista nell’estetica, così da mantenere gli elementi originali.
Per concludere il lavoro, infine, la carrozzeria è stata riverniciata nel caratteristico blu metallizzato, il serbatoio è stato trattato internamente contro la ruggine e sono stati applicati al telaio i catadiottri, come in origine, che ricordano un po’ quelli applicati da un anno a questa parte sui modelli di moto omologati euro 4.
Il costo per un restauro così profondo è parecchio alto, considerando la mole di lavoro sul motore e sulla componentistica che ha richiesto circa 115 ore di manodopera, a cui si devono aggiungere circa 3.700 euro di costi tra verniciatura, cromatura e rettifica.