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Domenica scorsa si è disputato a Santa Clara (California) il Super Bowl numero 50, la finalissima del Football NFL: un evento sportivo che da anni fa ascolti spaventosi in tutto il mondo. A prescindere da quali siano le squadre che si affrontano nel “big game”, c’è un aspetto del Super Bowl che affascina ogni tipo di telespettatore in America, anche quelli a cui del football americano non potrebbe fregare di meno.
Sto parlando degli spot pubblicitari: trenta secondi di spazio commerciale in una delle trasmissioni più seguite al mondo arriva a costare diversi milioni di dollari (per questa edizione il prezzo è salito alla cifra record di 5 milioni) per cui le aziende che si possono permettere di essere li non badano a spese nella realizzazione dei loro spot.
Dopo ogni Super Bowl, i media americani pubblicano invariabilmente la classifica dei 10 migliori spot pubblicitari, dando ulteriore visibilità a chi ha trovato le idee migliori e conquistato il cuore dei telespettatori.
Immaginatevi dunque la mia sorpresa quando nello spot della Audi R8 ho visto il mio amico Gunner Wright, con il quale ero uscito a pranzo il giovedì immediatamente precedente alla partita, ma che mi aveva tenuto all’oscuro di tutto (obblighi contrattuali).
Ho conosciuto Gunner nel 2009 alla gara di MotoGP a Laguna Seca, e l’anno successivo abbiamo collaborato per un photoshoot commissionato da un mio cliente: da quel momento siamo sempre rimasti in contatto, anche se io mi sono trasferito temporaneamente ad Atlanta e lui ha girato il mondo in lungo e in largo per seguire le produzioni che lo coinvolgevano.
Ma chi è Gunner Wright? Originario della Florida, ha corso nel cross a livello locale per diversi anni prima di spostarsi con la famiglia in California e trovare lavoro come PR e addetto stampa del Team Honda HRC nel Supercross, alla fine degli anni ’90.
Ben presto è arrivato il richiamo di Hollywood, cui Gunner ha risposto prontamente guadagnandosi una discreta posizione nel settore, prima di sfondare come voce ufficiale di Isaak Clarke nella serie Dead Space, un videogame che ha avuto enorme successo negli USA.
Ma Gunner è, prima di tutto, un grandissimo appassionato di moto e motori: segue tutte le gare del Supercross e della MotoGP anche quando è sul set e, soprattutto, usa la moto come suo principale mezzo di trasporto nella vita di tutti i giorni.
«Se sono arrivato a Hollywood è grazie alle moto» mi racconta. «Non sono uno di quelli che la moto se l’è comprata perché adesso fa tendenza. Fin da piccolo ho seguito mio padre sulle piste di motocross e flat track in Florida, dove sono nato. Quando mio padre, che era un rappresentate per la Honda in Florida, venne assunto dalla sede centrale in California, tutta la famiglia si spostò a Los Angeles. Gareggiai a livello locale in un ambiente estremamente competitivo, ma dopo una serie di infortuni decisi di mollare e finii gli studi. Mi misi poi a cercare un lavoro, e l’occasione giusta arrivò quando un vecchio amico di mio padre mi fece sapere che alla Honda stavano creando un nuovo reparto che si sarebbe occupato della stampa e delle pubbliche relazioni. Una cosa simile esisteva già nelle auto, ma nelle moto era una novità assoluta per gli USA. Ricordo che uno degli aspetti chiave del colloquio per l’assunzione fu una intervista video simulata, con il filmato che scorreva su una grossa TV davanti a me: era fondamentale essere calmi e dimostrare di poter reggere alla pressione davanti a una platea di giornalisti, decine di microfoni, macchine fotografiche e telecamere… Beh, io mi trovai subito a mio agio, e alla fine fu quello a farmi passare la selezione ed ottenere il posto».
Il talento per il set era dunque innato… ma ad Hollywood come ci sei arrivato, e cosa c’entrano le moto?
«Nel periodo in cui fui a capo dell’ufficio stampa Honda, il Supercross ebbe la sua consacrazione definitiva e con quattro gare all’anno tra Anaheim e San Diego avevo sempre l'hospitality piena di attori e gente che lavorava nell’ambiente di Hollywood. Molti erano degli stuntman, e grazie ad uno di essi ottenni il mio primo lavoro in TV: una parte nel telefilm Fast Lane sul network FOX. Da li fu una successione di eventi, e le tante amicizie strette nelle hospitality dei campi di gara mi permisero di trovare velocemente altri lavori nell’industria».
Come vedono le moto nell’ambiente del cinema?
“Il rapporto tra Hollywood e le moto è molto buono, anche se poi, al momento di firmare un contratto, ti fanno mille problemi se scoprono che usi la moto e vorrebbero sempre inserire clausole che ti costringano a muoverti in macchina… Molti attori hanno una o più moto perché fa figo, ma non sanno quasi nemmeno accenderle. Altri, come Harrison Ford ad esempio, la usano come mezzo di trasporto quotidiano. Ricordo che ero sul set di G.I. Joe e vidi arrivare questo signore su una grossa Harley. Non l’avevo mai incontrato di persona e dunque non lo riconobbi subito. Dovemmo interrompere le riprese per una ventina di minuti perché la capo truccatrice si assentò per tagliargli i capelli. Pensa che quei due si sono conosciuti sul set di Star Wars a fine Anni Settanta e da allora Harrison Ford quando ha bisogno di tagliarsi i capelli la chiama e, ovunque lei sia, la raggiunge».
Anche tu la moto la usi praticamente sempre, quando sei a Los Angeles
«Si, la mia Ducati Hyperstrada mi permette di muovermi in modo rapido e di trovare parcheggio esattamente davanti a dove devo andare. Qui devi stare attento perché la gente non è abituata alle moto, e dunque non guarda bene prima di fare qualsiasi manovra. Inoltre, basta una goccia di pioggia e le strade diventano come il sapone… Ma per me che vivo nel cuore della città, in un quarto d’ora arrivo sulle colline dietro a Hollywood e Griffith Park, e in un attimo sono immerso nella natura e mi dimentico di tutto: è la mia piccola razione quotidiana di libertà».
So che hai una grande ammirazione per Steve McQueen, e ti piacerebbe un giorno poter eseguire i tuoi stessi stunt
«Si, i miei idoli sono Steve McQueen e Paul Newman, perché sono sempre stati persone “vere” oltre che attori. Amavano le moto e le auto, e soprattutto avevano un gran rispetto per gli stuntman che gli facevano da controfigura. Steve, in particolare, provava sempre lo stunt da sè, e se proprio non ci riusciva o se il suo agente si arrabbiava perché era troppo pericoloso, allora lasciava fare ad uno specialista… A me piacerebbe fare un film ispirato a loro, sullo stile vintage di “The Fastest Indian”, dove però dare credito a tutti gli stuntman che rischiano la vita decine di volte ogni giorno per scene che poi sul video durano una manciata di secondi».
Hai un rapporto particolare con l’Italia, anche se per ora ci sei stato solo una volta
«Ero venuto a Milano per le riprese di uno spot pubblicitario, e sono rimasto sconvolto dal numero di "due ruote" che giravano da tutte le parti. Non credevo esistesse una nazione così appassionata di moto. Ricordo che appena sceso dall’aereo il primo cartellone che vidi all’aeroporto, mentre aspettavo i bagagli, era una pubblicità con Valentino Rossi, mentre sui monitor passavano il notiziario… e anche li parlavano della MotoGP! Poi ricordo anche che una mattina presto, rientrando in albergo dopo aver fatto jogging al parco Sempione, non trovai nessuno alla reception o nella sala ristorante. Volevo far colazione ma il posto era deserto. Allora mi infilai in cucina e trovai tutto il personale attaccato ad una TV minuscola che guardava il GP d’Australia, all’alba!»
Perchè non torni a fare un giro? Sono passati tanti anni ormai…
«Oh, lascia stare… Voglio andare a trovare Gabriele (Mazzarolo - Nda) in Alpinestars, è anni che mi invita! E poi voglio assolutamente visitare la Ducati e il museo a Borgo Panigale. Ma sai una cosa, quello che davvero mi piacerebbe è poter andare a Maggiora a vedere il Motocross delle Nazioni: la gara del 1986, quando Bailey, Johnson e O’Mara vinsero sulle tre Honda Factory, rimane uno dei momenti più belli di sempre del motocross americano. E adesso finalmente si torna a correre nello stesso posto, dopo 30 anni! Sarà epico, voglio assolutamente trovare il modo e il tempo di andarci! Spero solo che gli USA riescano a mettere in campo uno squadrone degno del Dream Team del 1986, sarebbe ora che tornassimo a vincere il MXoN!»