Ride in the USA. "Motonation" e il sogno americano

La passione per le due ruote di Bill Berroth in un'intervista che non solo racconta la sua vita e come è nata Motonation, ma è un po' uno spaccato del sogno americano
22 giugno 2016

 

Il settore delle moto è bello perché la maggior parte di chi ci lavora ci è arrivato per un preciso motivo: non è semplicemente un business, ma una passione che si coltiva fin da bambini, e alla fine, in molti casi, il sogno si trasforma in realtà, indipendentemente da quanto sia stata difficile la strada per realizzarlo.

Il caso di Bill Berroth è senza dubbio emblematico, e rappresenta perfettamente lo spirito che per fortuna ancora pervade la gran parte dei personaggi e delle aziende convolte nel mondo che tutti noi amiamo. Bill è un personaggio molto noto qui negli USA, ma per mille motivi le nostre strade non si sono mai davvero incrociate. L’ho finalmente conosciuto ad una gara che ho corso in Baja California un paio di mesi fa, e appena abbiamo iniziato a chiacchierare del più e del meno ho capito che dovevo assolutamente intervistarlo e raccontare la sua storia.

Sono andato a trovare Bill a San Diego, nella sede di Motonation (www.motonation.com), il distributore USA dei marchi SIDI, AGV Sport, Vemar e Forcefield.


La prima cosa che si vede, entrando dall’ingresso principale, è una KTM 175 del 1980, e ovviamente la nostra intervista è partita da li.

«E’ la moto ufficiale di quando correvo, un pezzo più unico che raro. Ha un cambio ad 8 marce e la sede del gruppo lamellare completamente realizzata ad hoc. Erano gli anni in cui in Europa Kreidler, Zündapp e gli altri stavano sperimentando cambi da 8 o anche 10 marce nelle cilindrate più piccole, e KTM decise di provare sulla mia moto. Sono sicuro che qualcuno nell’Europeo corse con lo stesso prototipo, ma qui ce l’avevo solo io. Il motore era ancora il Sachs e gli ingranaggi delle marce vennero ridotti di spessore in modo da fare spazio per due marce in più. La necessità di avere più marce derivava dal fatto che in trasferimento la moto non passava le 55 mph e quindi arrivavi a inizio speciale sempre al pelo. In pratica le due marce in più permettevano di andare più veloce e avere il tempo di cambiare la gomma e lavorare sulla moto prima di entrare in linea. Il basamento è quello del 250, ma KTM riteneva che la coppia del 250 avrebbe tritato il cambio, per cui decisero di metterci l’albero motore del 125 (molto più leggero) e la termica del 175. Tutta la parte che ospita il gruppo lamellare è completamente modificata per poter montare un pacco Yamaha YZ, e il carburatore è un Bing. Ricordo che provai il Mikuni e sembrava molto meglio, ma all’epoca non riuscivo a trovare i getti giusti, quindi optai per il Bing. Il cambio era comunque abbastanza fragile, quindi per la maggior parte della stagione usai il 6 marce di serie».
 

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E l’hai tenuta per tutti questi anni?
«Oh, no. Al tempo non me la sarei potuta permettere. Ero un pilota “ufficiale”, ma non significa che guadagnassi dei soldi. KTM ti pagava le spese per andare alle gare e a fine anno ti lasciava la moto con cui avevi corso, in modo da poterla vendere e ricavarci qualche soldo. La vendetti a un mio amico, che non la usò mai e la chiuse nel sottoscala. Ci perdemmo di vista, ma proprio quando Internet era agli albori ci ritrovammo online: lui dal Connecticut si stava trasferendo in Giappone e mi offrì di ricomprare la moto, cosa che feci immediatamente. A quel punto non l’ho restaurata da maniaco ma l’ho semplicemente preparata come se dovessi andare a correre una gara, e poi l’ho portata qui in ufficio».

Dopo questa breve chiacchierata, Bill mi ha fatto vedere gli uffici di Motonation, che si occupano solo delle vendite, del servizio clienti e del race service. Tutto il magazzino della merce si trova in un centro logistico a Los Angeles. Il prodotto principale è ovviamente SIDI, un marchio con il quale lavorano ormai da una vita. Di recente hanno anche iniziato a distribuire la calzatura da ciclismo, che, essendo un mercato completamente diverso, viene gestita da una sussidiaria chiamata “Ciclista America”. L’intero edificio si presta ad una sorta di caccia al tesoro per appassionati: stivali firmati dai campioni di oggi e di ieri, pezzi del passato da pilota di Bill, la DKW che un tempo apparteneva a suo padre, foto di vari campioni e appassionati del marchio, tra i quali spicca l’attore Matt LeBlanc (ve lo ricordate in Friends?). Anche qui c’è, ovviamente un piccolo aneddoto:

«Un altro supporter del marchio - mi racconta Bill - è Kiefer Sutherland, ma lui non vuole favori. Mi manda l’ordine esatto del materiale che vuole, e pretende di pagare il prezzo pieno, più i costi di spedizione. Dice infatti che non vuole sentirsi debitore con nessuno e di conseguenza non vuole avere “favori da restituire”. Nessun problema, fossero tutti così! Mi ricordo che una volta mi chiamò una assistente di produzione che voleva del materiale per Tom Cruise. Stava per iniziare a dettare la sua lista quando le dissi che avrei preferito che Tom mi chiamasse di persona. “Oh, Mr. Cruise non fa queste cose” mi disse. Allora le risposi “Se Mr. Cruise non ha nemmeno il tempo di fare una telefonata, o magari non vuole scendere al nostro livello, per favore gli faccia sapere che non siamo interessati a collaborare con lui».
 


Una delle altre cose che spiccano negli uffici di Motonation è l’ubiqua presenza di artefatti messicani: la maggior parte sono a tema motociclistico, ma un soggetto in particolare si ripresenta un po’ ovunque: un asinello.
«Quello è Tony, la nostra mascotte. Ha persino una sezione del nostro sito dedicata alle sue avventure (http://www.motonation.com/team_tony.htm). È il tipico asinello in cartapesta, il classico ornamento da giardino che vendono praticamente ovunque in Baja (tipo i nostri orribili nanetti!!! - Nda). Quando Motonation era appena stata creata uno degli impiegati organizzò il suo matrimonio in Baja e, mentre in albergo facevano le prove, tutto il gruppo di Motonation andò a mangiare l’aragosta al villaggio vicino. Dopo qualche margarita di troppo iniziammo a vagare per le strade, e notammo tutti questi asinelli in vendita nei negozi per turisti. Qualcuno disse che Motonation aveva bisogno di una mascotte e comprammo uno di quegli asinelli. Avevamo adesso il problema di come chiamarlo, e qualcuno nel gruppo suggerì il nome Tony. Perché proprio Tony? Eravamo in Messico e ci saremmo aspettati un nome locale, ma il nostro collega era insistente “Il mio migliore amico si chiama Tony, è un caro ragazzo ma delle volte è proprio testardo come un asino!”. Sebbene il Tony originale sia ancora nei nostri uffici, molte copie sono in giro per i negozi dei nostri clienti.  È diventata infatti una sorta di tradizione spedire un Tony (con un tubetto di colla incluso nella scatola perché sono fragilissimi e si rompono sempre) e chiedere che il cliente ci rimandi una foto che lo veda in qualche modo coinvolto in qualche tipo di attività, senza particolari limiti all’immaginazione. Ti lascio immaginare cosa ci arriva… diciamo che le foto più pubblicabili finiscono sul sito».


Come avrete notato, la Baja California è un tema ricorrente: Bill non solo è un amante di quella bellissima terra, ma qualche anno fa ci si è trasferito a vivere, e ogni giorno attraversa il confine per andare a lavorare a San Diego. L’ho dunque seguito fino in Messico e abbiamo finito la nostra intervista sul terrazzo di casa sua. Al tramonto, affacciati sull’Oceano Pacifico e sorseggiando birra e margaritas: dura la vita!
«Anni fa, durante un giro in fuoristrada con gli amici, ho comprato un piccolo pezzo di terra qui e col tempo ci ho costruito una casa. Al momento di divorziare dalla mia ex-moglie ho tenuto Motonation e la casa in Baja, mentre lei si è tenuta la casa in California e tutto il resto. Per un po’ ho vissuto in un appartamentino sfigatissimo a San Diego, ma poi ho deciso di trasferirmi qui e ho scoperto un nuovo mondo. Ogni sera in meno di un’ora lascio l’ufficio e il traffico della California e mi ritrovo in paradiso».

 



Parliamo di te, voglio sapere come hai iniziato e come sei arrivato fin qui.
«Sono parte di quella generazione che ha scoperto le moto grazie al film “On Any Sunday”. Ai tempi vivevo in Connecticut ed ero ancora un ragazzino, ma rimasi folgorato. Qualche anno dopo, nel 1973, mentre eravamo con gli amichetti sulle bici vicino all’autostrada, vedemmo passare i camion Penton e Husqvarna: cosa diavolo ci facevano lì nel mezzo del nulla? Chiesi a un amico di mio padre, grande appassionato di moto, e scoprii che si stavano dirigendo in Massachusetts per la Sei Giorni di Enduro. Lo stesso amico di mio padre organizzò una macchinata e il sabato della prova finale di cross finalmente vidi di persona questo spettacolo magnifico. Da qual momento, correre in moto era tutto quello che avrei voluto fare nella mia vita».

Prima di continuare ho una domanda da farti, che mi ha sempre incuriosito: quanto importante fu effettivamente, per il film, la presenza di Steve McQueen?
«Per noi ragazzini che non sapevamo nemmeno chi McQueen fosse, direi che la sua presenza fu del tutto irrilevante. Ma Steve era un grandissimo appassionato di moto e sapeva che il suo coinvolgimento avrebbe attirato l’attenzione di molta gente, di conseguenza avrebbe favorito la conoscenza e la diffusione delle moto. Mia madre, per esempio, volle vedere il film solo perché c’era McQueen, a lei delle moto non importava nulla! Da quel punto di vista il contributo di Steve fu immenso: senza di lui il fenomeno non sarebbe probabilmente nemmeno decollato, e forse non avrebbero nemmeno girato il film».

Torniamo a te.
«Sì, all’epoca avevo 15 anni e giravo già con una minimoto, ma a quel punto iniziai a prendere tutto molto più seriamente. In New England, per correre in Enduro, che passava anche su tratti aperti al traffico, dovevi prendere la licenza, ma anche fare il patentino (come avviene tuttora in Italia - Nda). Oggi invece le gare sono tutte in zone chiuse al traffico. Stavo facendo bene nella zona del New England, ma il mio sogno era correre la Sei Giorni, quindi iniziai ad andare a fare le gare nazionali di qualifica, per vedere se fossi riuscito a guadagnare un posto alla ISDE. Alla fine riuscii a fare due Sei Giorni, nel 1979 in Germania Ovest e nel 1980 in Francia, e ottenni la medaglia d’argento in entrambe le occasioni. Una volta tornato a casa iniziai ad insistere con KTM per farmi correre altre Sei Giorni, ma loro volevano vincere il campionato in New England. Mi promisero che avrei avuto la possibilità di correre in qualsiasi campionato e competizione l’anno successivo, ma solo dopo aver vinto il campionato che interessava a loro. Mi arrabbiai, perché non volevo buttare via un anno correndo a livello locale, ma a quei tempi non c’erano molte chance di correre tutto spesato, e non volevo perdere l’occasione.  Vinsi il campionato e a quel punto tornai all’assalto per esigere quanto mi avevano promesso. Mi dissero che certo, ero libero di correre dove volevo, ma loro avevano un’altra idea. Ero amico del presidente di KTM America, Jack Lehto, che conosceva bene anche i miei genitori. Tieni presente che a quei tempi l’ambiente delle corse era molto più a misura d’uomo, e KTM USA non era nemmeno lontanamente quello che è oggi: era poco più che un’officina in Ohio, nella stessa cittadina dove ancora oggi si trova la loro sede principale.
Comunque Jack mi prese da parte e mi disse “Tu vai bene in moto, ma a livello nazionale puoi al massimo aspirare ad un quinto posto, e con un quinto posto non si va da nessuna parte nella vita”.  Mi offesi da morire, ma lui continuò “Ti offro un posto all’interno di KTM e così potrai correre ogni domenica in un posto diverso e in una specialità diversa, se gli impegni di lavoro te lo permetteranno. Ovviamente non potrai aspirare a vincere singoli campionati, ma farai un’esperienza unica, tutto pagato”. Devi sapere che quando andavo alle gare spesso mi appoggiavo ai rivenditori locali, per usare la loro officina o per comprare qualche ricambio, e ogni volta scrivevo anche un breve report, non solo sulla gara, ma sul dealer che avevo visitato. Cose semplici, tipo come era organizzato il negozio, che ricambi gli servivano o che tipo di moto sarebbero state più facili da vendere in quella zona. Lo scrivevo a mano e lo mettevo in una busta per spedirlo via posta. Io non lo sapevo, ma Lehto aveva conservato tutti i miei report e li aveva lì con lui, in una cartelletta: nessuno dei suoi ispettori aveva mai fatto lontanamente nulla del genere.

Era un’ottima opportunità per me, che arrivavo da una famiglia in cui si doveva contare fino all’ultimo dollaro. Iniziai come assistente nel magazzino ricambi, poi feci il meccanico e una serie di altri lavoretti. KTM all’epoca non era così strutturata come ora, eravamo in 12 in tutto, ed ognuno faceva del suo meglio per contribuire. In quegli anni KTM iniziò a investire anche nel Motocross e uno dei piloti era un ragazzo del New England, John Finkelday: non velocissimo ma spettacolare, e comunque sempre nei primi 5 o 6 a livello nazionale nella classe 500. Lehto ci chiamò tutti e ci disse che dovevamo supportare questo pilota, quindi ognuno di noi gli avrebbe fatto da meccanico nella gara vicino a casa nostra, e in quel modo avremmo potuto passare a salutare la famiglia. La prima gara era vicina a casa di un certo Mike, così fu lui a fare da meccanico a Finkelday. La seconda era in Kentucky e il meccanico designato fu Rod Bush, che negli anni successivi diventò a sua volta presidente di KTM USA. La terza gara era in Massachusetts, quindi fu il mio turno: John fece benino nelle prove precedenti, ma alla mia gara finì sul podio e si creò subito un legame. Prima di quel round la sua moto aveva avuto problemi con la catena che continuava a saltare. In realtà John guidava come un animale, e metteva il forcellone in alluminio sotto tale pressione che finiva per flettere e la catena saltava fuori.  Tieni presente che correvamo contro gente come Bailey, Johnson e compagnia bella, in sella ai prototipi giapponesi tutti in titanio. La nostra moto era invece completamente di serie, quindi Finkelday doveva metterci moltissimo del suo per stare al passo. Fino a quel momento nessuno aveva notato che la catena saltava per la torsione del forcellone: senza che mi vedessero lo smontai e andai in un officina dove lo feci tagliare, ci infilai un profilato d’acciaio all’interno di ogni braccio e lo risaldammo in fretta e furia. Ritornai nel paddock e rimontai il pezzo senza farmi vedere, anche perché adesso pesava il triplo. Ma John non se ne accorse e, anzi, si innamorò della moto e arrivò a podio, finendo per la prima volta entrambe le manche senza problemi. Fu un momento fantastico, e KTM mi incaricò di seguire il pilota per il resto del campionato, anche perché gli altri avevano un lavoro più strutturato del mio, mentre io potevo fare un po’ il jolly. A fine campionato John si piazzò mi pare settimo e andò alla Honda, mentre KTM decise di schierare la nuova 250 per l’anno successivo. Avevamo bisogno di fare esperienza quindi, come tutti, andammo a correre il campionato invernale in California, le allora famose Golden State Series. La decisone di KTM fu di schierare tre piloti americani, e chiunque avesse fatto meglio sarebbe rimasto come prima guida per il National. A fine campionato avremmo deciso in base al mio voto (visto che sarei andato a tutte le gare), il voto di Jack Lehto e il voto di un manager di KTM Austria. I piloti erano Ron Turner, che era già avanti con gli anni e si ritirò dalle gare, poi c’erano Jeff Hicks, che era il miglior amico di Bob Hannah, e Dave Hollis. Il primo era un pazzo scatenato, gran cuore, grandi cadute, amato dal pubblico e impossibile non notarlo quando scendeva in pista. Il secondo era più riservato e taciturno, per non dire di peggio: non un bel carattere, ma sicuramente regolare nei risultati. Non faceva meglio di quarto o quinto, ma arrivava sempre. Devi sapere che quel campionato era solo un banco prova per gli altri ufficiali: venivano a fare una o due gare, trovavano il setting ideale e tornavano ad allenarsi per il Supercross. Alla fine, senza avversari e presentandosi a tutte le gare, Hollis vinse il campionato e fu scelto come pilota per il National, sebbene io insistessi che l’uomo giusto, anche per l’immagine, sarebbe stato Hicks. Era sempre in giro con Hannah e dunque KTM poteva sfruttare la pubblicità di riflesso, alle gare era gentile e parlava con tutti, partiva bene ma poi faceva delle cadute spettacolari, mascherando in certo modo il fatto che le KTM in quel momento non erano certo al livello della concorrenza. Lehto si rese conto della mia amarezza, e mi disse che se non volevo fare la stagione con Hollis sarei potuto restare in California per aiutarli ad aprire i nuovi uffici. Hollis non mi piaceva per niente, non si allenava, non dava mai il massimo e aveva anche un brutto carattere: la scelta fu facile e restai in California».

E una volta nel cuore del mondo motociclistico americano le cose si sono susseguite velocemente.
«Sì, non avevo ancora trent’anni e avevo tutto un nuovo mondo davanti a me. Aiutai a stabilire la sede di KTM in El Cajon, all’interno dello stesso capannone dove c’era Hallman Racing prima che diventasse Thor, e dopo qualche anno nello stesso capannone arrivò anche Acerbis. Io successivamente fui assunto da Mark Blackwell per lavorare in Husqvarna, anche loro di base erano a San Diego, e diventai il manager della loro linea di accessori “Husky Products”. Era la fine del 1985, e la proprietà Husqvarna era ancora svedese».

Franco Acerbis, che considero non solo mio mentore ma in assoluto la persona da cui ho imparato di più in vita mia


Nel 1987 però Husqvarna passò agli italiani.
«Sì, dopo appena un anno Castiglioni ne diventò il proprietario e l’intero magazzino fu spostato a Los Angeles, dove c’era la sede della Cagiva. Io personalmente odio Los Angeles, al punto che dico sempre che lavorerei come benzinaio piuttosto che trasferirmi in quella bolgia. Dopo un po’ mi licenziai, e cercai immediatamente un altro lavoro che mi permettesse di restare a San Diego. Nell’anno in cui lavorai per Husqvarna eravamo anche il più grosso distributore di prodotti Acerbis. Ai tempi non c’erano distributori indipendenti come oggi: Parts Unlimited vendeva solo ricambi per le motoslitte, e Tucker Rocky era ancora divisa in Tucker e in Rocky, le due aziende prima della fusione. Gli unici distributori nazionali erano le Case motociclistiche. Avevo imparato a conoscere ed apprezzare i prodotti Acerbis e ne vendevamo tantissimi, anche se in realtà noi avevamo solo i ricambi Husqvarna, mentre il catalogo Acerbis era già molto ampio. Decisi di contattare Franco Acerbis, che considero non solo mio mentore ma in assoluto la persona da cui ho imparato di più in vita mia. Gli proposi un progetto di vendita prospettandogli un certo fatturato: lui lo lesse, lo ridusse di un bel po’ e mi disse che se avessi raggiunto quella cifra per il primo anno sarei poi potuto restare a vita. Ma se non ce l’avessi fatta avrei dovuto andarmene. Accettai e raggiunsi l’obiettivo, e per i successivi 15 anni rimasi in azienda».
 


Arriviamo a SIDI, il prodotto principale attorno a cui ruota oggi Motonation.
«Negli anni Acerbis diventò un’azienda globale, con uffici in tutto il mondo e una gestione sempre più decentralizzata e affidata a manager dei quali spesso non condividevo le idee. Non mi sentivo più a mio agio, e decisi di volare in Italia per parlarne direttamente con Franco. Ricordo che prendemmo una bottiglia di vino e guidammo per le montagne attorno ad Albino finché trovammo un posto dove sederci e discutere davanti a un bicchiere di rosso. Parlammo a lungo, e alla fine ci lasciammo senza rancori e senza polemiche, eravamo semplicemente proiettati in direzioni diverse. Tornai a casa senza un lavoro e senza un futuro. Mia moglie era in paranoia ma io avevo bisogno di pensare, e quando devo pensare vado in moto. Rimasi in giro per tre settimane, andando fino in Colorado a trovare un mio amico dove restai a dormire sul divano per un po’. Alla fine decisi di giocarmi la carta SIDI. Conoscevo l’azienda e i prodotti dai tempi di KTM, visto che la Hallman Racing era il distributore SIDI e con loro condividevamo il capannone. Avevo anche incontrato la famiglia di sfuggita e sapevo che non erano contenti della loro situazione in America, dunque decisi di prendere il toro per le corna e prenotai un volo di sola andata per l’Italia. Avevo in mente una strategia che avrebbe permesso a SIDI di affermarsi sul mercato, con una distribuzione personalizzata e molto mirata alla promozione del marchio, quasi fossimo un’estensione dell’azienda stessa: un concetto che a quel tempo nelle moto non aveva ancora applicato nessuno. Arrivai a Maser proprio mentre loro avevano una riunione importante per il settore ciclo, di conseguenza non avrebbero avuto tempo per me. Gli dissi che avevo un biglietto di sola andata, e che dunque avrei potuto aspettare. Mi misero a disposizione una stanza d’albergo, una macchina e una KTM 350 che credo fosse di Stefano Signori, il figlio del titolare. Gli dissi che avrei accettato solo la moto e per una settimana sono andato a zonzo per le Dolomiti, affinando il mio progetto. Quando finalmente mi incontrarono, il signor Dino, il proprietario, apprezzò le mie idee e mi disse che per partire voleva vedere nero su bianco una società creata ad hoc, ed un estratto del conto in banca che mostrasse esattamente la cifra che mi richiedeva di acquistare come ordine di impianto. Erano molti soldi, ipotecai la casa (con molte lamentele da parte di mia moglie) e mi rivolsi a tre vecchi amici offrendo ad ognuno il 20% delle quote societarie: Don Emler di FMF, Danny Laporte (anche lui già con FMF) e Tom Webb, il direttore della rivista Dirt Bike. Accettarono di buon grado, ma Don Emler mi disse che prima avrei dovuto riorganizzare per lui l’ufficio commerciale di FMF, che ha ovviamente sede nella mia odiatissima Los Angeles. Era un piccolo prezzo da pagare, lavorai per alcuni mesi alla ristrutturazione, andando però a Los Angeles il meno possibile. Quando tutto fu pronto ed ebbi trovato il mio sostituto per continuare il lavoro impostato (Doug Muellner, ancora oggi mitico direttore commerciale di FMF - Nda) fui pronto a incontrare nuovamente la famiglia Signori: ecco come è nata Motonation».