Roberto Gallina: "Oggi conta più la moto del pilota"

Roberto Gallina: "Oggi conta più la moto del pilota"
Roberto Gallina, uno dei piloti, e poi manager, simbolo delle due ruote italiane negli anni Settanta e Ottanta ripercorre la sua carriera incrociando personaggi e storie come Agostini, Lucchinelli e l'incidente di Pasolini e Saarinen
18 marzo 2013


Parlando con Roberto Gallina, ci si rende subito conto che, più che una intervista, per raccontare la storia di questo personaggio che è stato ottimo pilota, team manager dei trionfi di Lucchinelli e Uncini e costruttore assieme a Tamburini, ci vorrebbe un libro, ed anche bello spesso. Sono infatti tantissimi i momenti che l’hanno visto protagonista e gli aneddoti che conserva nella sua ferrea memoria.

Il più tragico è sicuramente quel 20 Maggio di trenta anni fa che segnò indelebilmente la storia del motociclismo italiano e mondiale:
«Io non credo molto nel destino –ricorda Gallina- ma quel giorno a salvarmi dalla caduta in cui incapparono 17 piloti fu un caso: ero partito molto bene, ma all’inizio della Curva Grande ebbi l’impressione che qualcosa non funzionasse nel motore, forse una candela, e mi spostai un po’ sulla sinistra. Feci giusto in tempo a vedere Pasolini passarmi all’interno che iniziò l’inferno. Proprio perché avevo alzato la testa dalla carenatura riuscii ad essere l’unico a evitare la caduta assieme a Braun e Mario Lega».

Sulle cause di questo incidente che vide morire due dei più grandi piloti del tempo, Saarinen e Pasolini, si sono scritti fiumi d’inchiostro; lei che fu testimone diretto che impressione si è fatto: fu l’olio in pista o il grippaggio dell'Aermacchi Harley-Davidson di Pasolini a innescare il dramma?
«L’olio perso da Villa nella gara precedente c’era, ma abbastanza all’interno della curva. Ed è anche vero che la moto di Renzo fu recuperata grippata, ma scivolò nell’erba rimanendo probabilmente accelerata, quindi questo potrebbe essere stato successivo all’incidente. Va detto che Pasolini era partito male, e superò molti piloti all’interno: lo sbandamento della sua moto, che ho visto chiaramente, potrebbe anche essere dovuto ad un troppo repentino cambio di traiettoria o nell’essere finito sull’olio di Villa. Nessuno saprà mai la verità».

L'incidente a Monza il 20 maggio 1973
L'incidente a Monza il 20 maggio 1973
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In quell’incidente perse due dei suoi più grandi rivali. Come li ricorda?
«Saarinen per me, oltre che un amico, era il pilota migliore dell’epoca, lo dico con cognizione di causa perché fummo avversari con le stesse moto e quindi ne capii il valore. Pasolini era un talento naturale, che sopperiva con una guida aggressiva alle carenze delle sue moto».

Il Gallina pilota come lo giudica?
«Sono soddisfatto, ho vinto due titoli italiani e circa 60 gare complessivamente, correndo come ufficiale MotoBi, Benelli e Paton e confrontandomi ad armi pari con tutti i migliori piloti del tempo, da Agostini a Phil Read. Mi spiace che nonostante abbia fatto vari giri in testa e conquistato secondi e terzi posti, non sia riuscito a vincere una gara del mondiale. Purtroppo non credo di avere mai avuto la moto giusta e quel pizzico di fortuna necessario. In ogni caso sono ovviamente felice, visti i tempi ed il mio stile di guida aggressivo, di essere uscito integro dalle corse di quel tempo, che erano veramente pericolose. Ricordo ad esempio l’amico Luciano Rossi, pilota MotoBi, che in quel periodo era secondo me il pilota più veloce di tutti e che si vide rovinare la carriera in un incidente stradale. Io non avevo mai paura, ma quando divenni team manager mi impegnai per fondare l’IRTA, l’Associazione dei Team, al fine di rendere più sicure le piste, perché avevo visto troppi amici cadere in posti assurdi e in percorsi con totale mancanza di protezioni. Fu un miracolo che io stesso non mi rovinassi sul terribile circuito di Abbazia, in un punto la pista era delimitata da degli scogli aguzzi…. Devo dire che l’IRTA segnò un bel passo avanti e contribuì a rendere il motociclismo uno sport moderno ed anche ricco».

Non ha citato Agostini come pilota di riferimento di quel periodo, come mai?
«Ago merita un discorso a parte: se parliamo di velocità pura, c’erano altri veloci. Ma se essere il più forte significa avere una costanza di prestazioni ed intelligenza tattica, Ago era insuperabile. Faccio due esempi che mi hanno visto coinvolto. Nel 1962 eravamo entrambi ufficiali Morini alla Bologna-San Luca; la pendenza era del 20%, quindi scelsi il rapporto più corto offerto disponibile. Guidai bene ed ero sicuro di averlo battuto, ma fu lui a prevalere, perché aveva avuto la determinazione di cercarsi un pignone ancora più corto, disponibile sulla moto di serie. Al Nürburgring si accorse che, dopo una giornata di sole, la nebbia fitta prevista per il giorno della gara avrebbe rallentato le "due tempi"; così dopo avere fatto le prove con la Yamaha, corse con una vecchia MV quattro tempi e stravinse; io allora ero un team manager e nessuno di noi capì a fondo il vantaggio che si stava assicurando con questa mossa al limite del regolamento. Ricordiamoci che ha vinto il Tourist Trophy, il che significava avere la disciplina di impararsi a memoria 60 km di curve, io non ci sarei mai riuscito. E poi saper cogliere l’attimo. Passare alla Morini o alla MV nel momento giusto. Pilota ineguagliabile».


Lei fu fortissimo anche in Endurance, correndo con le Laverda e con coequiper anche Cereghini; come andava il nostro Nico?
«Fui molto felice di correre con lui, perché di solito tendevano ad affiancare ad un pilota veloce uno lento, mentre in questo caso non accadde. Cereghini era molto più giovane di me, meno esperto, ma teneva il passo. Inoltre era fisicamente a posto e questo nelle 24 ore, che allora si correvano in due, era importantissimo specie con una moto che vibrava tantissimo come la SFC. Tra l’altro nel prosieguo della sua carriera migliorò ancora. Con lui ricordo in particolare un bel secondo posto alla 24 Ore di Francorchamps».

Nel ’75 decisi di affiancare alla attività di pilota quella di Team Manager. Il mio scopo era quello di avere un team privato più bello di quelli ufficiali, che allora erano i giapponesi e la MV


Il celebre Team Gallina quando nasce?
«Nel ’75 decisi di affiancare alla attività di pilota quella di Team Manager. Il mio scopo era quello di avere un team privato più bello di quelli ufficiali, che allora erano i giapponesi e la MV. Acquistai quattro Yamaha 250, le volevo tutte con un unico colore, azzurro, e con una unica livrea, e mi rivolsi alla AGV a cui l’idea piacque molto e mi finanziò con 5 milioni di lire. Un colpo di fortuna lo ebbi quando la MV mi chiese di cedergli uno dei miei migliori piloti, Toracca, per sostituire Agostini, cosa che portò ulteriori introiti al Team. In quegli anni fummo i primi ad avere un addetto stampa nel team e, grazie alla successiva collaborazione con Olio Fiat, un camion acquistato a metà prezzo come hospitality. Erano cose mai viste neanche nelle migliori squadre ufficiali e questo contribuì a fare crescere la reputazione del Team Gallina».

Come arrivaste ad avere le Suzuki ufficiali?
«Ci eravamo comportati molto bene con le moto clienti e quando nel ‘78 Suzuki volle rubare Steve Baker alla Yamaha ci offrì una RG Gamma ufficiale per farlo correre. Baker era un ottimo pilota, ma non riusciva ad azzeccare una partenza, anche perché in Europa, al contrario degli States, la partenza era ancora a spinta. Quindi era sempre costretto alla rimonta. Quando si infortunò durante una gara americana, mettemmo sulla sua moto Virginio Ferrari e vincemmo subito al Nürburgring in 500 e dopo in 750. L’anno seguente fummo la migliore Suzuki ma perdemmo il titolo a favore di Kenny Roberts, e purtroppo mi rimane il rammarico che se ci avessimo creduto tutti di più, avremmo potuto conquistarlo». 

 

Lucchinelli su Suzuki RG500
Lucchinelli su Suzuki RG500

Nonostante il buon risultato, il matrimonio con Ferrari si sciolse: perché?
«Allora Ferrari aveva un manager con idee molto innovative di promozione e merchandising dell’immagine del pilota; fu chiesto al team di investire su questo progetto, ma non me la sentii e, poiché la mia proposta non fu accettata, non avevo altra scelta che cercare un altro pilota. Chiamai Lucchinelli, che aveva già corso a lungo con me, e Rossi: entrambi si dissero felici di pilotare la mia 500, ai giapponesi piacevano entrambi e quindi decidemmo di fare un team di due piloti. Alla fine fummo terzi e quinti nel mondiale: entrambi i piloti si dimostrarono veloci, ma ci furono un sacco di inconvenienti e alla fine per l’81 decidemmo di continuare con il solo Lucky».

Su Wikipedia alla voce “Graziano Rossi” si legge “Risale a quel periodo, secondo alcune fonti, la rottura dei rapporti con Roberto Gallina, titolare del team”
«Questo dimostra che non tutto quello che si trova sul web è vero. Con Graziano siamo in buoni rapporti. Purtroppo la sua stagione venne rovinata da un terribile incidente avvenuto su di una macchina da rally, che lo lasciò in coma per alcuni giorni; tra l’altro Graziano era un pilota veloce almeno altrettanto quanto era eccentrico: non ho mai capito se la gallina che allora portava al guinzaglio in realtà fosse un riferimento al sottoscritto…».

Il 1981 fu un anno trionfale
«Sì, funzionò tutto a meraviglia, l’accoppiata Team Gallina –Lucchinelli fu spaziale. Lucchinelli era il pilota ideale per la mia squadra, perché faceva benissimo il suo mestiere, ovvero dare il gas senza entrare troppo nei dettagli tecnici. Ci diceva come andava la moto, noi facevamo le modifiche che ritenevamo necessarie, lui tornava in sella e tirava giù mezzo secondo. Fu una stagione straordinaria, che ci diede grandissima popolarità».

Eppure alla fine Lucky decise di lasciarvi per passare nello squadrone Honda: ci rimaneste male?
«Fu un brutto colpo, ma alla fine la Honda gli dava tre volte il nostro ingaggio e Lucchinelli è giustamente un pilota, non un filosofo. Magari mi dispiacque venirlo a sapere in aeroporto, quando mi trovai da solo a volare in Giappone per festeggiare il titolo con i vertici della Suzuki. Comunque è acqua passata, a Lucchinelli posso solo essere grato. A quel punto fu gioco forza prendere il migliore privato a disposizione, Franco Uncini. Lui era l’opposto di Lucky: pignolo, gli piaceva controllare tutto, portò anche un suo ottimo meccanico nella scuderia, ma quello che era importante è che ci diede il gas e ci aggiudicammo il secondo mondiale 500 di fila».

A cosa si deve questo dominio del Team Gallina?
«Eravamo una squadra molto organizzata e soprattutto non avevamo paura di innovare. A Le Mans ad esempio aggiungemmo uno spoiler che consentiva solo a Lucchinelli di fare in pieno la curva sul ponte Dunlop. In Finlandia, dove si passava dalla massima velocità alla prima, ci inventammo una specie di antisaltellamento sulla ruota posteriore che ci dette un secondo al giro. Fummo anche i primi a chiedere alla Michelin i pneumatici da 16, che ora tutti usano ma che allora sembravano assurdi per una moto, ed addirittura assieme a Tamburini progettammo un servosterzo per contrastarne la pesantezza. Credo che la mia esperienza come meccanico e come pilota sia stata molto importante».

Un dominio bruscamente interrotto dal grave incidente di Uncini
«Sì, il 1983 fu una bruttissima stagione, tra l’altro Uncini rientrò probabilmente anche troppo presto sotto la pressione degli sponsor, e comunque non era comprensibilmente in grado di competere ai massimi livelli. L’anno dopo convinsi personalmente il Presidente della Suzuki a non ritirarsi dalla 500 cc, ma decisero di fare progettare la moto ad un ingegnere che veniva dal trial, il quale realizzò una moto da 108 kg in luogo dei 120 del modello precedente. Peccato che avesse perso completamente di rigidezza e tutto l’anno proseguimmo a fare rinforzi al telaio, dato che a quello vecchio non si poteva tornare perché il nuovo motore era più stretto e più corto».

 
Così le venne l’idea di costruirsi una moto da solo
«Non da solo, ma assumendo Massimo Tamburini, che aveva abbandonato la Bimota. Siccome lui non voleva lasciare Rimini, fu il team che tutte le settimane si trasferiva li da La Spezia. Da questa esperienza nacque la TGA1, una 500cc avanzatissima, tutta carenata e con una serie di soluzioni avveniristiche (ad esempio il radiatore ellittico che solo la Mitsubishi mi seppe realizzare), che conquistò l’attenzione di tutti. Purtroppo eccedemmo in ambizione, la moto era troppo innovativa e non fummo in grado di metterla a punto. Ci prendemmo però una bella rivincita con le moto di serie, progettando per la Cagiva la Aletta 125, che vendette tantissimo . La facemmo in pochissimo tempo, perché Castiglioni non era soddisfatto del progetto interno e ci commissionò in tutta fretta una nuova moto. Assieme a Tamburini progettammo anche la Ducati Paso, che riprendeva alcuni concetti della TGA, come la carenatura integrale e le ruote da 16».

Monocilindrica TGA6R1
Monocilindrica TGA6R1


Purtroppo il sodalizio con Tamburini durò poco
«Eh sì, i Castiglioni avevano capito che il centro di progettazione che avevamo messo in piedi era di eccellenza e lo rilevò assieme a Tamburini, denominandolo Centro Ricerca Cagiva, e sappiamo che moto ha sfornato….delle quali io mi sento un po’ partecipe.
Il Team rientrò quindi alla base originaria di La Spezia e qui continuammo nella progettazione e costruzione di prototipi, questa volta per il mercato giapponese. La prima moto interamente realizzata da noi in 12 esemplari compreso il motore 750 cc ad iniezione è stata l’Hayashi 750, e in seguito sono stati realizzati 20 esemplari della TGA6, una moto sportiva per gare di supermono, quest’ultima con motori derivati dalla base della Suzuki DR800 Big. Ma questa è un’altra storia…
Continuammo con le competizioni, dedicandoci alla 250 con piloti come Reggiani e Casoli, ma il motociclismo stava cambiando e poco alla volta rallentammo la nostra presenza. Mi dedicai a fare correre mio figlio Michele, che ha vinto molto ed oggi gestisce una bella concessionaria ufficiale MV Agusta qui a La Spezia, dove anche io , pur essendo abbondantemente in pensione, mi diverto ad aiutare. Alla fine abbiamo raccolto come team un bottino di 17 Gran Premi vinti, due titoli mondiali e 11 italiani, posso dirmi soddisfatto».

Con la sua enorme esperienza, come valuta il caso Rossi/Ducati?
«In tempi non sospetti dichiarai che era una sciocchezza pensare che un pilota, per quanto straordinario, potesse aiutare a progettare una moto migliore. Oggi con la telemetria si ricavano i dati più disparati, dati oggettivi di cui i progettisti possono disporre a piacimento e dai quali il comportamento del mezzo è facilmente intellegibile. Quanto può dare di più un pilota? Io penso molto poco, il suo compito oggi più che mai è quello di portare al limite la moto, affinandone il setup, non quello di dare indicazioni tecniche. Del resto oggi l’elettronica è talmente preponderante che vedi un ragazzino come Marquez, appena salito su di una Motogp, tenere il passo di Pedrosa. Con i "due tempi",  salire di categoria era un impresa che richiedeva un bell’apprendistato e il pilota contava almeno il 50% del risultato, con il rimanente diviso tra moto e team. Oggi credo che questa proporzione non sia più la stessa, e pur rimanendo il pilota essenziale per limare la migliore prestazione, non è sicuramente più l’elemento preponderante dell’equazione».

Claudio Pavanello
Foto: Cortesia di Roberto Gallina

 

 

 

 

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